C’è un Sud che non chiede più permesso. Non implora, non aspetta. E soprattutto non si vergogna più di ciò che è. In questo libro – che si apre e si chiude con un eloquente “nonostante tutto” – Lino Patruno non scrive un pamphlet d’accusa, ma un manifesto di liberazione. Il Mezzogiorno non è più oggetto da compatire, ma soggetto di un racconto nuovo, inatteso, spesso ignorato. Lo stile è lucido, appassionato, a tratti militante, ma mai ideologico. Patruno ribalta i luoghi comuni con dati, esperienze, sguardi dal basso. E invita a rivedere, con lentezza ma senza indugi, l’idea stessa di modernità.
“Nonostante tutto” apre e chiude il libro: quale “ipocrisia nazionale” intende smascherare, e in che modo il Sud ne è diventato motore di riscatto?
«L’ipocrisia secondo cui il Sud doveva essere solo terra di emigrazione e poco altro, in base a una divisione colonialistica che destinava a una parte del Paese la produzione e all’altra il rifornimento di braccia. Tutto questo è avvenuto attraverso leggi di bilancio che hanno sistematicamente destinato la spesa pubblica più al Centro-Nord e meno al Sud. Una violazione continua della Costituzione, che esclude differenze di trattamento a seconda di dove si è nati. Un sopruso ammesso anche dai governi, che hanno riconosciuto come i bisogni del Sud non siano mai stati calcolati, e quindi mai finanziati. L’emigrazione non è stata casuale, ma decisa secondo un modello preordinato. Eppure, nonostante tutto, il Sud è sempre cresciuto: è sempre stato “in sviluppo”, mai “in via di sviluppo”, come si voleva far credere con la Questione Meridionale. È un cambio di paradigma, un rovesciamento del tavolo. Brandire continuamente il divario è stato una forma di terrorismo culturale: siccome il divario non cambiava, per il Sud non c’era più nulla da fare, tanto valeva non fare nulla. E così si continuava a dirottare i soldi delle tasse di tutti (Sud compreso) solo verso alcuni».
Lei parla di una felicità che sfugge alle classifiche economiche: come il Sud può diventare modello di benessere e quali barriere culturali restano?
«È la felicità di uno stile di vita non fondato solo sulla produzione compulsiva, ma che lascia spazio anche per sé: “io sono mio”. È il ripensamento sul nostro stare al mondo cominciato con il Covid, che ha portato alle “grandi dimissioni” anche in Italia: molti hanno deciso di cambiare rotta, consapevoli che basta un virus a mandare tutto all’aria. È lo spirito di quei giovani che rifiutano di sacrificare la loro vita sull’altare del lavoro, pur importante che sia. È lo stile del Sud, dove la vita non corre ma scorre. Le barriere culturali sono rappresentate da chi ha considerato difetti questi valori, perché lo facevano sentire un “non-ancora-Nord”. Ma il Sud deve restare autenticamente Sud, non diventare artificialmente Nord. Ha vinto il Sud che è rimasto Sud: quello che serve a tutti».
Lei rovescia il nesso modernità-velocità e propone la lentezza: qual è il gesto quotidiano più semplice per riconnettersi a questa “modernità alternativa”?
«La lentezza non è inattività, ma presenza consapevole. È ritmo del respiro, non mancanza. Vuol dire prendersi cura di sé, degli altri, dei luoghi. Una lentezza capace di profondità, di pensiero. È dire: “qui si può vivere diversamente”. Come nella musica, dove i silenzi contano quanto le note. Dobbiamo ricominciare a meravigliarci, inorridirci, commuoverci, innamorarci. La resilienza del Sud oggi è resilienza globale. E allora: almeno una volta al giorno, affacciamoci alla finestra».
Tra i giovani che tornano o restano al Sud, quale storia o volto le ha mostrato meglio la “fame dello spirito” di cui parla?
«Nel libro ci sono oltre 200 storie di questo sommerso ma continuo controesodo: sono quelle di chi ha capito che anche al Sud si può. Non solo perché le condizioni economiche sono cambiate in meglio, ma perché è cambiata la consapevolezza. Oggi c’è fiducia, e chi torna (come chi resta) non lo fa da sconfitto, ma con una visione diversa. La stessa che porta sempre più investitori verso la nostra terra».
Confronta il boom tecnologico globale e la resilienza del Sud: quale analogia descrive al meglio questa corsa “a ostacoli”?
«Cifre, una volta tanto. Nonostante servizi e infrastrutture statali mai pari al resto del Paese, siamo la settima potenza manifatturiera d’Europa, la terza economia del Mediterraneo, il primo tesoro agricolo del continente, il primo produttore italiano di energia alternativa. Il Sud conta una decina di settori produttivi essenziali per l’Italia, ed è comunque nel 15% più ricco del mondo. E rispetto a territori altrettanto “sacrificati”, è una volta e mezzo avanti. Ha vinto perché doveva perdere. Doveva essere solo terra di emigrazione, è diventata invece terra di nuova modernità».
Cita l’ozio creativo come antidoto alla fretta: cosa l’ha aiutata a immaginare un nuovo modo di lavorare e vivere?
«Il povero Domenico De Masi, autore del libro “Ozio creativo”, è stato un profeta inascoltato: sembrava istigare i fannulloni, e invece aveva capito in anticipo che lo sviluppo tecnologico ci avrebbe regalato tempo libero da usare per creare, non solo per eseguire. È ciò che farà anche l’IA: si stima che libererà 200 ore all’anno per ogni lavoratore. Ci regalerà tempo. Lo diceva già John Maynard Keynes, che nel 1930 prevedeva – entro un secolo – una settimana lavorativa di 15 ore. Abbiamo cinque anni per capire se c’avesse visto lungo».
Quale ruolo immagina per il Sud nella costruzione di un’Europa solidale, e quale alfabeto serve per vedere il Mezzogiorno come cuore di un progetto condiviso?
«Il bello è che a puntare sul Sud non è tanto l’Italia, quanto l’Europa, che vorrebbe Bruxelles più sullo Stretto che in Belgio. Il Sud è l’Europa più vicina all’Africa: il continente del futuro – anzi del presente – dove molti Stati crescono più di Cina e India, e con una popolazione dall’età media di 21 anni. Il Sud è il primo approdo, non solo dei gommoni, ma anche di chi dall’Africa vuole dialogare col mondo e costruire il futuro. Due voglie di fare che si saldano. Anche il fatto che l’Europa voglia spostare il suo baricentro dimostra che il Sud ha vinto».