A Bari, dal 16 al 18 dicembre, il festival internazionale (video)Games & (Alta) Cultura, promosso da AgeOfGames con Its Apulia Digital Academy e Apulia Film Commission, mette in dialogo intelligenza artificiale, geopolitica e immaginari videoludici. Tra gli ospiti c’è Piero Molino, ricercatore e imprenditore attivo negli Stati Uniti, fondatore e Ceo della startup «Atelico», che lavora su sistemi di IA pensati specificamente per il videogame. Lo abbiamo intervistato alla vigilia dell’evento.
Quando si è avvicinato per la prima volta al mondo dell’intelligenza artificiale?
«Ho studiato informatica all’Università di Bari. All’inizio volevo sviluppare videogiochi, poi durante un corso del professor Semeraro sull’elaborazione del linguaggio naturale ho incontrato i primi algoritmi di apprendimento automatico, in particolare quelli usati nei recommender system, i sistemi che suggeriscono contenuti online.. Mi hanno appassionato: li ho scelti per la tesi e li ho approfonditi durante la magistrale e il dottorato».
Il festival mette in dialogo IA, geopolitica e videogame. Dove passa oggi il confine tra gioco e potere reale?
«Il legame tra gioco e intelligenza artificiale è antico. I primi programmi di IA nascono negli anni Cinquanta per giocare a scacchi. Poi arrivano backgammon, Jeopardy, il Go, fino a titoli recenti come StarCraft o Minecraft. Anche il confine tra gioco e simulazione è sottile: le auto a guida autonoma vengono addestrate in ambienti simulati costruiti con motori dei videogiochi. Sviluppare in simulazione costa meno e consente iterazioni rapidissime. Oggi però l’impatto è visibile perché queste tecnologie sono usate da centinaia di milioni di persone».
Ha pubblicato un articolo in cui parla di una «empasse» etica sul tema del consenso degli artisti. Perché oggi è diventata centrale?
«Perché i modelli generativi attuali si basano sul deep learning e richiedono enormi quantità di dati. I dataset sono stati costruiti raccogliendo testi e immagini dal web senza chiedere permessi. Le aziende invocano il fair use, ma questi modelli possono imitare lo stile di qualunque autore o generare opere quasi identiche alle originali. Gli artisti hanno ragioni solide per protestare. L’industria oggi fa accordi con grandi fornitori di contenuti, ma ignora spesso i singoli autori. Il risentimento è comprensibile».
Il suo approccio si fonda su consenso, revenue sharing e modelli leggeri. Qual è l’obiezione più frequente?
«In realtà non ne riceviamo molte. Con gli artisti partiamo sempre da un contratto: li paghiamo, specifichiamo l’uso dei contenuti per addestrare l’IA e condividiamo una parte dei proventi del gioco. Gli artisti mantengono il controllo sul proprio stile. I modelli girano sul dispositivo del giocatore, per ridurre costi ed impatto energetico. Non è un modo per risparmiare, ma per rendere possibili cose nuove: non creare cento creature a basso costo, ma permettere a ogni giocatore di generarne potenzialmente infinite».
Lei sostiene che l’IA debba «alzare il soffitto» creativo. Come si evita quello che molti chiamano «slop generativo», cioè una produzione automatica di contenuti ripetitivi e di bassa qualità?
«Lo slop viene rifiutato dai giocatori, che siano contenuti generati da IA o da umani. Su piattaforme come Steam i giochi costruiti riciclando asset standard vengono accolti negativamente. Il problema oggi è quasi l’opposto: molti associano automaticamente qualsiasi uso dell’IA a contenuti dozzinali. Il nostro compito è dimostrare che l’IA può rendere possibili giochi nuovi, prima irrealizzabili, con un valore artistico riconoscibile. Quando questo accadrà, non importerà più la tecnologia usata, ma se il gioco sa funzionare e coinvolgere».
C’è chi teme che il fine-tuning, cioè l’addestramento mirato dei modelli sul lavoro di singoli autori, finisca per comprimere lo stile degli artisti. È un rischio reale?
«La generazione procedurale esiste da decenni. Il fine-tuning è un’evoluzione: invece di combinare pezzi, l’algoritmo apprende uno stile e lo ricompone. Il punto è l’uso che se ne fa. Se serve a sostituire un artista, è immorale e inefficace. Se invece permette a milioni di giocatori di ottenere contenuti personalizzati in tempo reale, apre possibilità nuove che nessun artista, da solo, potrebbe realizzare».
Nei suoi giochi una parte dell’autorialità passa al sistema. Che cosa significa creare in questo modo?
«Nei giochi sistemici, come SimCity o Minecraft, l’autorialità è già in parte del giocatore. L’IA non la sottrae, la amplifica: il sistema risponde ai desideri del giocatore adattando il mondo di gioco. La sfida sarà bilanciare questa libertà con l’intento artistico di chi crea il gioco».
Perché oggi l’IA continua a dividere così profondamente?
«Succede con ogni nuova tecnologia, ma qui si aggiunge un’aura quasi mistica dovuta alla complessità dei sistemi e all’hype che li circonda. Il percorso sarà simile a quello del web o degli smartphone: prima entusiasmo e paura, poi assestamento. Alla fine diventerà parte della quotidianità, e ci sembrerà strano averne fatto a meno».









