Nel ventre di Bari, il quartiere Libertà è un microcosmo dove la convivenza tra culture diverse sfida la decadenza urbanistica.
Giacomo Pepe, con il suo progetto fotografico e il docufilm «Inside Libertà», cattura la resistenza silenziosa di un luogo troppo spesso dimenticato, raccontando con sguardo intimo e potente le storie di chi, ogni giorno, lotta per dare un futuro a un passato segnato dall’abbandono.
«Inside Libertà» nasce da un gesto semplice: camminare nel quartiere, fermarsi, ascoltare. Come ha lavorato il tempo nella costruzione del docufilm e del progetto fotografico?
«Il progetto fotografico è a monte del docufilm. Il film – disponibile su Youtube – è stato il modo più rapido per mostrare tutto il lavoro, perché al momento un progetto editoriale sarebbe oneroso e rischioso. Montare il materiale era la via più immediata. Il nucleo centrale erano i ritratti. Ho iniziato a frequentare quotidianamente il quartiere: abito in una zona borderline, piazza Garibaldi, ma nella vita faccio tutt’altro, sono ingegnere e direttore di cantiere. Da tre anni mi occupo del restauro della Manifattura Tabacchi, nel cuore del Libertà».
Come è iniziato questo racconto?
«Da gennaio 2023 ho iniziato a percorrere ogni giorno le strade del quartiere. Sono una persona che si affeziona ai territori e alle persone. Anche in viaggio ho una propensione per questi scenari. Cambiavo percorso ogni mattina per arrivare a lavoro. Rientrato a Bari dopo quattro anni a Roma, ho rincontrato l’amico Enzo Granella, che ogni domenica intervista persone del quartiere per un podcast. Mi è venuta l’idea di accompagnarlo e ritrarre le persone che intervistava. Il nucleo forte del progetto sono infatti i ritratti».
Ci sono altri momenti che l’hanno spinto a portare avanti il progetto?
«Mi sono reso conto che la sola galleria di ritratti non bastava: servivano delle sottostorie, una punteggiatura fatta di spazi, dettagli, paesaggio urbano. Ho iniziato quindi a fotografare dettagli, scene di strada, eventi religiosi sia cattolici sia musulmani, perché volevo sottolineare anche l’interculturalità e l’interreligiosità del quartiere. In tutte le periferie del mondo esistono dinamiche comuni: convivenze strette, densità abitative elevate, adattamento forzato tra persone di etnie diverse».
Che cosa si impara stando così tanto dentro una convivenza forzata fatta di culture e lingue diverse?
«Si impara che la vita di ciascuno, anche se non ideale, trova comunque un modo per adeguarsi alla prossimità con gli altri. È un quartiere dove emergono rumori, radio a tutto volume con musica neomelodica all’ora di pranzo… ma alla fine vedo molta tolleranza. Mi piace percorrere via Garruba, dove c’è la più alta concentrazione della comunità del Bangladesh. La moschea, di fronte al Municipio 1, convive tranquillamente con un barbiere, con il doposcuola dei bambini bangladesi. È un vero esperimento di intercultura».
Quali dinamiche emergono in questo intreccio che definisce così distintamente il quartiere?
«È bellissimo, per esempio, che il Redentore metta regolarmente a disposizione i suoi spazi per la comunità musulmana: l’ultimo giorno di Ramadan viene festeggiato nel campetto, e quest’anno ho fotografato anche la festa del sacrificio. Credo che questo quartiere sia un esperimento riuscito. Urbanisticamente non è una periferia, perché è attaccato al centro. Lo è diventato per ragioni complesse: abbandono istituzionale, degrado crescente. Dal Murattiano al Libertà cambia tutto. La densità abitativa è altissima, gli edifici sono sempre più fatiscenti e hanno usufruito pochissimo dei bonus edilizi. È una convivenza stretta in uno spazio che non è stato curato».
Si avverte nella gente del quartiere quel senso di abbandono da parte delle istituzioni?
«Sì, l’ho avvertito chiaramente. Da circa un anno partecipo anche alle attività del Collettivo Libertà, nato dopo episodi di violenza contro alcuni ragazzi del Bangladesh. Durante le riunioni, ciò che emergeva era proprio la percezione di abbandono. Io credo molto nella teoria delle finestre rotte: quando un luogo è curato, anche le persone iniziano ad averne cura».
Non è stato facile sottrarsi agli stereotipi. Come ha affrontato la sfida di rappresentare la complessità del quartiere?
«Fotografare significa fare scelte. Ho cercato un equilibrio: non volevo trasformare degrado, povertà o disagio in spettacolo. Volevo che emergesse tutto, ma in maniera equilibrata. Il lavoro è ancora in corso: un contatto porta a un altro, e così via».
Ha in mente altri progetti in futuro?
«Ho iniziato un nuovo progetto da due o tre settimane. Racconto un esperimento di co-housing: un’associazione che, grazie a un bando del Comune, ha preso alcuni appartamenti in cui convivono persone che erano senza fissa dimora e che hanno completato tutto il percorso dai dormitori alla strada. Sto iniziando a conoscerli piano piano e vorrei raccontare almeno uno di questi appartamenti».










