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In concerto a Bisceglie, De Gregori non cambia mai e rilegge “Rimmel” come fosse la prima volta

Due ore, o quasi, di applausi a scena aperta. Cappello a falda larga, jeans e t-shirt scura: l’Arena del Mare di Bisceglie lo accoglie come un vecchio amico. È la tappa pugliese del tour che celebra i cinquant’anni di Rimmel. Martedì sera, al Dolmen Summer Fest organizzato da Gs 23 Eventi, Francesco De Gregori entra…
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Due ore, o quasi, di applausi a scena aperta. Cappello a falda larga, jeans e t-shirt scura: l’Arena del Mare di Bisceglie lo accoglie come un vecchio amico. È la tappa pugliese del tour che celebra i cinquant’anni di Rimmel. Martedì sera, al Dolmen Summer Fest organizzato da Gs 23 Eventi, Francesco De Gregori entra senza enfasi, con la misura che hanno i classici; parla poco, canta molto. La voce c’è, ferma, come una linea netta in un Caravaggio; l’armonica taglia l’aria e ne serba il sale. In scaletta c’è spazio per tutte le canzoni di Rimmel, ma non solo: Atlantide porta lontano, Cercando un altro Egitto risale dall’album della Pecora come un animale araldico che torna dal fondale. «Queste sono le canzoni che ci permettono di darci del tu quando ci incontriamo per strada», dice il Principe, e la frase è una poetica civile.
Quello che Woody Guthrie fu per Bob Dylan, è stato Dylan per De Gregori. E allora ecco l’ombra di Zimmy: Via della povertà, traduzione di Desolation Row, brano di chiusura di Highway 61 Revisited (1965). Il compagno fedele si affaccia, fa l’occhiolino e scompare nel buio delle luci. È anche un segnale genealogico: quel lavoro su Dylan fu il primo frutto della collaborazione con Fabrizio De André che l’anno successivo sfocerà in Volume 8. Qui, sul mare, la citazione non è omaggio: è sangue.

La storia di un capolavoro

Per capire perché, cinquant’anni dopo, Rimmel non scolori, occorre rivederne la genesi. È il 1975, ecco Francesco nuovamente in sala di registrazione: ha carta bianca (nulla di nuovo), ma è il solo responsabile degli arrangiamenti e della produzione (questa è una novità). Le canzoni sono belle, e l’obiettivo è perfettamente a fuoco. I pianeti sono allineati nelle congiunzioni più favorevoli, le sei corde del cuore miracolosamente accordate. La copertina è aggressiva: il volto dolcissimo d’una giovane donna di fine Ottocento dentro una carta da parati spropositata. Tutto è perfetto, ironia, sentimento, anticonformismo, poesia, senso storico, fantasia. Sono presenti gli elementi che per almeno dieci anni terranno banco; e ciò riguarda non solo i contenuti ma anche la musica.

Ci sono le ballate folk in stile americano (Rimmel, Il signor Hood, Le storie di ieri, Buonanotte fiorellino), c’è la melodia italiana (Piccola mela), ci sono linee armoniche assolutamente inedite (Pezzi di vetro, Quattro cani, Piano bar). I tempi ondeggiano in due quarti, in tre quarti, in quattro quarti, anche terzinati. Il contrabbasso prende il posto del basso elettrico; compaiono ottimi jazzisti, primo tra tutti il maestro Mario Schiano. E c’è la zampata dell’amico Lucio Dalla, che suggerisce di ritoccare il risvolto melodico del ritornello di Pablo, aumentandone fascino e presa, fino a diventarne coautore. Non c’è possibilità di fallire: il disco cresce come un edificio concreto, osservabile da lontano, e diventa riferimento. Non il fuoco d’artificio che abbaglia per un attimo, ma una stella che continuerà a indicare la rotta per le generazioni a seguire. Le vendite salgono e tengono: best seller a parabola lunga, rarissima in discografia. Con quel disco Francesco abbandona l’adolescenza ed entra nel mondo adulto, dove tutto è maledettamente serio.

La prova del tempo

A Bisceglie la storia si fa presente. Pezzi di vetro parte a cappella: un istante sospeso, la platea trattiene il respiro; poi entra il pianoforte del maestro Carlo Gaudiello, luce radente su un bassorilievo. «Lui ti offre la sua ultima carta, il suo ultimo prezioso tentativo di stupire». De Gregori porta la mano alla cintola, si arresta un momento, guarda il pubblico che lo festeggia: è il punto in cui l’opera guarda chi guarda, come accade davanti a un quadro quando d’improvviso ci sembra che il ritratto ci riconosca.

Il Principe è in gran forma, lo spettacolo non cerca il colpo di teatro ma preferisce l’architettura, il disegno, sostenuto da un gruppo di musicisti da paura. Come nelle buone mostre, il percorso non è cronologico ma necessario. Il bis è Sempre e per sempre, sussurrata; poi il momento che chiude il cerchio: tutti sotto il palco a ballare Buonanotte fiorellino. Perché ogni festa di compleanno, anche quella di un disco, non può che chiudersi così: con un ballo condiviso, sotto le luci che si spengono. Sono le 23, il Principe scende dal palco, salta su un van nero e scompare nella notte, forse accendendosi una Gitanes senza filtro – le sue preferite – con lo sguardo di chi sa che, cinquant’anni dopo, le canzoni che ha scritto bruciano ancora.

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