Trent’anni, senza diventare una band-museo. I Folkabbestia attraversano mode, generazioni e linguaggi continuando a suonare come se ogni concerto fosse il primo. Martedì, all’Officina degli Esordi di Bari, festeggiano l’anniversario con un live e con «Sotto il palco», nuovo singolo che è insieme dichiarazione d’intenti e ritorno alle origini.
Trent’anni di Folkabbestia significano resistere al rischio nostalgia. Come avete evitato di diventare una band «da anniversario»?
«Probabilmente perché non ci siamo mai accorti di essere “storici”. Continuiamo a fare musica con la stessa incoscienza degli inizi, come se il concerto dopo fosse sempre il primo. Finché saliamo sul palco con la voglia di divertirci – e di far divertire – non c’è il rischio di trasformarsi in un’operazione celebrativa. Al massimo da dopocena: su una nostra vecchia maglietta c’era scritto “Modestamente a tavola diamo soddisfazione”».
Il nuovo singolo «Sotto il palco» racconta la dimensione collettiva del concerto. Esiste ancora oggi un pubblico come corpo unico?
«È cambiato il modo di stare sotto un palco: oggi c’è sempre qualcuno che filma invece di sudare. Ma appena parte il ritmo giusto i telefoni finiscono nelle tasche e le spalle tornano a toccarsi. Magari per qualche secondo in meno rispetto a vent’anni fa, ma quel momento esiste ancora. Ed è lì che capisci se il concerto funziona».
Furgoni, viaggi infiniti, notti senza sonno: oggi quei primi anni vi sembrano romantici o irripetibili?
«Un po’ romantici, un po’ ingenui e sicuramente irripetibili. All’epoca era normale dormire due ore, mangiare panini vecchi e ripartire. Una volta siamo partiti da Amsterdam e, alternandoci alla guida senza soste, siamo arrivati a Polla giusto in tempo per il soundcheck. Oggi ci fa tenerezza ripensarci, e anche un po’ male alla schiena. Ma senza quei furgoni non saremmo qui».
Il folk, per voi, non è mai stato un genere da museo. Che rapporto avete oggi con la parola «tradizione»?
«Non l’abbiamo mai vissuta come una teca di vetro. È una cassetta degli attrezzi: la usi, la sporchi, a volte la rompi e poi la sistemi. Quando diventa uno slogan smette di essere viva».
Festeggiare a Bari ha un valore simbolico?
«In una nostra canzone diciamo che il ritorno è sempre una strada da ritrovare. Suonare qui, dopo trent’anni, è come rientrare a casa dopo un viaggio lunghissimo. Le voci sono le stesse, con qualche ruga in più. Qui ci sono le nostre radici e le nostre ali: la tarantella è il nostro blues».
Se doveste presentarvi a chi vi ascolta per la prima volta?
«Diremmo di non farsi troppe domande e di venire sotto il palco. I Folkabbestia sono una band, ma anche una piccola comunità fatta di cori stonati, piedi che battono a tempo e brindisi senza motivo. Più che un modo di stare al mondo, è un modo di stare insieme».









