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Sergio Rubini al Bif&st tra cinema, Puglia e AI: «Un algoritmo potrà generare solo un pubblico di algoritmi» – FOTO

Sergio Rubini è stato protagonista dell’incontro al Teatro Petruzzelli per il Bif&st 2025, dopo la proiezione del suo film “Il viaggio della sposa” e del cortometraggio “La tela”. L’attore e regista pugliese ha espresso la sua gioia nel tornare nella sua terra, che ha sempre raccontato con passione, a partire da “La stazione”.

Cinema, Puglia e intelligenza artificiale

Rubini ha sottolineato come la Puglia sia cambiata negli anni, diventando un modello da seguire per la sua capacità di unire tradizione, storia e paesaggi. Il regista insegue da tempo il desiderio di unire l’Europa sotto la bandiera dell’arte, investendo in cinema, musica e buona cucina per risollevare l’economia e rimettere al centro l’essere umano. «La forza del cinema è che non ha confini. Ciò che crea barriere e produce paura è l’ignoranza. La conoscenza unisce, dovremmo puntare sulla cultura: il nostro vero patrimonio», ha affermato Rubini.

Il regista non teme che l’intelligenza artificiale possa sostituire sceneggiatori e scrittori, convinto che «un algoritmo potrà generare solo un pubblico di algoritmi». Rubini ha poi sottolineato l’importanza di difendere le sale cinematografiche e i festival, spazi di socialità in crisi a causa dell’isolamento tecnologico. Rubini crede nell’essenza dialettica del cinema come veicolo per diffondere un messaggio culturale, contrapponendolo alla serialità televisiva, considerata un «animale da compagnia» che non spinge alla riflessione.

Parlando del mestiere dell’attore, Rubini ha citato Shakespeare per sottolineare la complessità dell’essere umano, paragonandolo a uno strumento da non suonare. «Gli attori sono fatti di ossa, dolori, aspirazioni, sono strumenti che non sappiamo suonare. Se pensiamo di trattare gli attori come strumenti senza tenere conto della loro anima, otterremo come risultato delle note stonate». La difficoltà nel mestiere dell’attore, secondo Rubini, è «quella di dover imparare a disimparare e tenere viva l’inesperienza», definendolo un processo logorante in cui l’attore non guida mai, ma è sempre guidato da uno sconosciuto. Il regista ha concluso che «essere un attore, come un prete o uno psicanalista, significa sospendere il giudizio e accogliere il personaggio nella luce delle sue motivazioni».

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