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Bari, 13 ore in pronto soccorso e nemmeno i termometri per misurare la febbre. Il ricovero? In barella

L’arrivo al pronto soccorso del Policlinico di Bari è, tutto sommato, incoraggiante. Ore 22.45 di una domenica sera, il triage è rapido, nulla fa immaginare le 13 ore che serviranno per avere una diagnosi. Né le altre 15 in barella, tra corridoio e stanza occupata da malati oncologici.

Una comune cronaca

Quello che segue è la cronaca di due giornate trascorse da cittadina comune, con mio figlio, nel pronto soccorso dell’ospedale più importante della Puglia, dove mancano i termometri ma si eseguono prestazioni specialistiche su pregiudicati visibilmente in buona salute, con il volto tumefatto da un paio di schiaffi, il telefonino in una mano e il tramezzino nell’altra. È il racconto di personale in affanno, posti letto inesistenti, umanità e strafottenza, storie di vita che si fanno solidarietà durante l’attesa, di infermiere “angeli” e aride dottoresse. Ma soprattutto di ore su una sedia, mentre le febbre sale e prima di te ci sono ben altre urgenze, «perché non è andata prima dal medico?».

La diagnosi

“Polmonite bilaterale”. La diagnosi arriva alle 12.20 di lunedì, dopo 13 ore, senza dormire, mangiando snack dalle macchinette (quelle sì, sempre ben fornite): «È una polmonite importante, macché esame domani – sentenzia il medico a mio figlio che si preparava all’ultimo appello del primo anno e, alla comunicazione, crolla – Io ti ricovero». In Reparto? Manco a dirlo, tutto pieno. E il nastro si riavvolge, si torna al pronto soccorso.

La notte

Ma vale la pena fare un passo indietro, alla notte sulle sedie, alle 3 ore per avere gli esiti delle analisi del sangue (pare, un termine necessario perché i campioni prelevati diano risposta), «ma potrebbe volerci qualcosa in più – avvertono – c’è poco personale a quest’ora». Quest’ora. Di ore ne passeranno molte di più. Ore 2.30, il tempo è trascorso, l’Rx al torace è stata fatta. E allora? «Il medico deve fare la valutazione». Intanto, il pronto soccorso si riempie a ondate: la ragazza con l’intossicazione, il veneto preso a botte per essersi immischiato in una lite tutta barese, la bimba con la gamba fasciata, la signora con i calcoli renali.

Il termometro

Ore 4.30, la febbre sale, chiedo un termometro, ingenuamente. «Non abbiamo termometri». E la risposta, di per sé una contraddizione in termini, ha una spiegazione: «Ce li rubavano sempre, rubano anche le sedie a rotelle». Non capisco, ma insisto, ne arriva uno: «È della collega, lo usi, poi lo disinfettiamo e lo restituiamo». Termometri troppo costosi per essere ricomprati, ma stride con quello che mi raccontano: «Lo vede quello seduto lì? È un pregiudicato, viene sempre e fa casino per fare esami, ci fa le truffe». Passerà anche lui dalla Tac.

La febbre c’è, generosamente applicano una flebo con paracetamolo. Ore 5.20, il cortese addetto all’accettazione porta novità: «La dottoressa ha guardato gli esami, richiede una consulenza pneumologica». Bene, andiamo. «No, i medici in Pneumologia arrivano alle 8, prima ripassate dall’ambulatorio».

Il nuovo giorno

Superato lo sfogo di mio figlio che chiede come mai non ce l’hanno detto prima (avremmo dormito qualche ora a casa), si sceglie di aspettare. Ancora. Ore 8: «La dottoressa arriva alle 8.30». Mio figlio dentro, io dall’altra parte del vetro, alziamo la voce, scelgono di spedirci comunque in Pneumologia, «sennò qua questi fanno un macello». Mi chiedo, ma è necessario arrivare a questo? Ore 9, aspettiamo ancora la strutturata. Arriva, guarda la radiografia e le analisi, ci rispediscono in pronto soccorso per una Tac e altri esami. Ore 11.15, fatto tutto grazie a un’infermiera angelo, che gestisce le emergenze e comprende la stanchezza di mio figlio. Si torna in Pneumologia, la strutturata è cambiata, ma in visita c’è un altro paziente. È l’ultimo step (credevamo), ci facciamo coraggio, una infermiera porta una sedia in corridoio. Dopo un’ora entriamo: uno sguardo agli esami, la diagnosi senza molta empatia (del resto, i medici devono essere preparati, non empatici), ma per il ricovero si torna al pronto soccorso, come una specie di sfibrante gioco dell’oca.

La barella

Ore 13.30, posti letto cercasi. Allora, sdraiato su una barella dallo schienale inclinabile, mio figlio inizia la terapia in un corridoio. Ci resterà fino alle 22.30, quando una dottoressa comprenderà la necessità di riposo e lo sposterà con la sua barella in una delle stanze di degenza del pronto soccorso, dove i letti sono tutti occupati. Pazienza, avanti c’è posto. Ore 9.30, due camici bianchi arrivano e “dissentono” sulla scelta del ricovero, «può curarsi a casa, chiamate la mamma che lo venga a prendere», alle 15 lo dimettono. Ci diranno dopo che quei due camici erano della direzione sanitaria. Ogni vita, evidentemente, ha un costo.

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