«Quando siamo arrivati ci è stato comunicato che il tempo di attesa doveva essere compreso tra i tre e i sei mesi» ma «molti di noi aspettano da oltre un anno e non abbiamo ancora ricevuto un appuntamento [per i colloqui con la commissione che deve valutare le loro richieste d’asilo, ndr]. Questi ritardi inaccettabili ci lasciano in un limbo mentalmente e fisicamente distruttivo, senza libertà di movimento».
È quanto scrivono, in una lettera inviata al prefetto di Bari, i migranti ospiti del Centro per richiedenti asilo (Cara) che si trova a Palese, nel capoluogo pugliese.
Chiedono «migliori condizioni di vita» all’interno del Cara, con «alloggi più grandi»; che «tutti i richiedenti asilo che entrano nel Centro siano ascoltati dalla commissione entro un massimo di sei mesi»; e ritengono sia una «vergogna che si continui a sfruttare i residenti del Cara come lavoratori agricoli».
La lettera protocollata in Prefettura è una delle iniziative intraprese, con il sostegno di alcune associazioni tra cui Solidaria, dopo la morte il 4 novembre scorso del 33enne Bangaly Soumaoro, che viveva nel Cara e che è deceduto in ospedale. Per la sua morte sono indagati nove operatori sanitari.
I migranti ricordano che il 22 novembre hanno pubblicato un video che denunciava lo stato dei bagni, «sporchi, allagati e senza acqua calda», e sottolineano che «negli ultimi giorni le condizioni sono migliorate».
Quanto alla condizione dei container «in cui molti di noi dormono – spiegano – si tratta di piccole strutture metalliche in cui otto a dieci persone sono costrette a dormire in letti a castello, senza alcuna privacy. Siamo costretti a vivere con infestazioni di scarafaggi, topi e cimici».
I migranti, inoltre, richiamano l’attenzione «sulla questione degli orari di apertura del Cara. In precedenza – spiegano – i cancelli si aprivano alle 6:30 del mattino, costringendo coloro che iniziano a lavorare presto, molti dei quali sono lavoratori agricoli, a scavalcare le recinzioni di filo spinato. Ora i cancelli si aprono alle 4:30 del mattino, tuttavia coloro che escono presto per andare al lavoro spesso lavorano in condizioni estremamente precarie, senza contratto, senza busta paga e quindi senza protezione legale o medica sul posto di lavoro».