È stato assolto nell’ambito del processo sull’omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia la sera tra il primo e il 2 novembre del 2007, ma c’è una «forma di condanna che nessuna sentenza può cancellare, lo stigma sociale verso chi è stato ingiustamente in carcere».
Ad affermarlo, diciotto anni dopo il delitto, è Raffaele Sollecito che venne accusato del delitto e poi definitivamente assolto. L’ingegnere pugliese si è sempre proclamato estraneo alla morte della studentessa inglese.
«Sono stato assolto definitivamente nel 2015 – ricorda Sollecito – dopo quattro anni di carcere e otto anni di processo basato su ricostruzioni completamente inventate. Eppure – aggiunge -, ancora oggi, molti continuano a pensare che l’abbia fatta franca. È una discriminazione silente ma devastante, che si manifesta negli sguardi, nei commenti, persino negli atteggiamenti istituzionali come la negazione di qualsiasi risarcimento».
Sollecito ricorda il caso di Alberto Stasi, «ingiustamente in carcere per l’omicidio di Garlasco di cui è innocente», afferma: «Come nella mia vicenda – prosegue -, sentenze ondivaghe e ricostruzioni fantasiose hanno creato un marchio indelebile che va oltre ogni verdetto».
Oggi Sollecito vive «in Puglia e lavoro come architetto del cloud, progettando le infrastrutture digitali per aziende di medie e grandi dimensioni. Lavoro da remoto e viaggio spesso, il che mi offre molta libertà e ne sono molto grato. Ho ricostruito la mia vita professionale, ma il peso di un’assoluzione che agli occhi di molti non basta a certificare l’innocenza è qualcosa con cui devo convivere ogni giorno».
Per Sollecito «serve una riforma non solo della giustizia, ma della memoria collettiva. Perché – conclude – nessuno dovrebbe essere condannato per sempre dall’opinione pubblica quando la legge lo ha dichiarato innocente».










