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Verso l’8 marzo, Leonilde Bonfrate: «In corsia c’è disparità. Serve cambio culturale»

«Il gender gap esiste anche in ambito sanitario. Quanti direttori di dipartimento donne ci sono? Con la medicina di genere sta cambiando l’approccio al paziente». Ad affermarlo è Leonilde Bonfrate, specialista in medicina interna e componente del tavolo tecnico regionale sulla medicina di urgenza, nonché consigliera dell’Esci (European Society for Clinical Investigation). Professoressa, ci sono…

«Il gender gap esiste anche in ambito sanitario. Quanti direttori di dipartimento donne ci sono? Con la medicina di genere sta cambiando l’approccio al paziente». Ad affermarlo è Leonilde Bonfrate, specialista in medicina interna e componente del tavolo tecnico regionale sulla medicina di urgenza, nonché consigliera dell’Esci (European Society for Clinical Investigation).

Professoressa, ci sono differenze tra le retribuzioni tra uomini e donne negli ospedali?

«Tecnicamente no, il contratto è lo stesso. Se si guarda però alle consulenze e agli incarichi, o ai grandi fondi per la ricerca, ci si accorge che si è ancora lontani dall’equità. Questo perché molto spesso le donne non hanno tempo e devono dividersi tra le necessità lavorative e quelle familiari. Ci sono tante donne medico ma pochissime direttrici di dipartimento».

Ha l’impressione che le cose stiano almeno migliorando?

«Sì. Va riconosciuto il grande lavoro che tanto lo Stato quanto la Regione sta portando avanti su questo tema. C’è però un gap culturale importante ancora da recuperare».

Perché è così importante la medicina di genere?

«Si tratta della base su cui opera quella di precisione. Vuol dire mettere al centro l’individuo al di là delle proprie caratteristiche biologiche con un approccio multidimensionale al paziente, non solo genetico. È come indossare un abito su misura rispetto a uno di taglia sbagliata. In passato gran parte dei trial clinici erano svolti solo su pazienti uomini».

Perché?

«La spiegazione che si dava è che la donna, avendo un assetto ormonale diverso legato alla gravidanza e questo poteva avere un impatto negativo sui risultati.. La conseguenza, però, è che gli approcci alle patologie e i farmaci venivano definiti solo sulla base delle caratteristiche degli uomini».

È ancora così?

«Sempre meno. Negli anni ‘80 Bernardine Patricia Healy, cardiologa americana, scrisse un importante articolo scientifico che smosse le coscienze. Da allora se n’è iniziato a parlare colmando il gap scientifico».

Da dove si è partiti?

«Anzitutto inserendo anche le donne nei trial scientifici, facendo più attenzione alla fase sperimentale. Si è rivoluzionato tutto e una spinta importante in tal senso è arrivata anche dal Covid».

In che modo?

«Le conseguenze non sono stati uguali per uomini e donne ma si sono registrate reazioni differenti al virus, con una rilevanza importante dei trigger ambientali e sociali».

Cosa si sta facendo per rendere sempre più “profonda” la medicina di genere nel servizio sanitario nazionale?

«Userei due parole: formazione e informazione. La prima rivolta al personale sanitario. C’è un gap di conoscenze che persiste tra medici e para medici che solo con lo studio e il confronto si può superare. La seconda è rivolta ai cittadini. Tanti non sanno cos’è e, per questo, vengono realizzate campagne e incontri. Un lavoro che in Puglia vede in prima linea il tavolo tecnico della Regione. Una intuizione che sta dando importanti risultati. Bisogna necessariamente proseguire su questa strada».

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