Riforma della giustizia, Laforgia: «Un magistrato che bada al consenso e all’immagine non è un buon magistrato»

«”Non vi è avvenimento politico nel corso del quale non si senta invocare l’autorità del giudice, il giudice ha un immenso potere politico”. Sembrano parole scritte oggi, eppure sono tratte da “La democrazia in America”, di Alexis de Tocqueville, che risale alla prima metà dell’800. Dimostrano come il problema del rapporto tra magistratura e politica non sia un fatto recente, né ristretto al “caso italiano”. Evidentemente, non basta regolare l’accesso dei magistrati alle cariche elettive o agli incarichi di governo. È giusto evitare le “porte girevoli”, ma bisogna soprattutto preoccuparsi del passaggio dalle funzioni giurisdizionali alla politica. Un magistrato che bada al consenso, all’immagine pubblica e ai successi mediatici non è un buon magistrato, né prima, né dopo l’esperienza politica».

A parlare così, commentando l’approvazione in Consiglio dei ministri della Riforma della Giustizia ed in particolare della stretta sulle toghe in politica, è Michele Laforgia, avvocato penalista barese e presidente de La Giusta Causa.
Il magistrato antimafia Nino Di Matteo ha spesso ricordato che nell’attuale Parlamento ci sono oltre un centinaio di avvocati di cui molti “aderenti alle camere penali” impegnati “a svolgere la loro professione di avvocato mentre ricoprono l’importante incarico parlamentare”. Cosa risponde?
«A differenza dei magistrati, gli avvocati, aderenti o meno alle Camere Penali, non esercitano alcun potere. Il Dott. Di Matteo dovrebbe saperlo. Che gli avvocati si interessino di politica, con o senza incarichi parlamentari, mi pare del resto assolutamente fisiologico: in fondo, si occupano delle leggi per professione. Possono farlo bene o male, ma questo è un altro discorso».
Il Consiglio dei Ministri ha approvato la Riforma della Giustizia. Significa che il progetto dell’ex ministro Bonafede un tempo criticato dagli altri partiti era valido tanto da aver messo tutti d’accordo?
«Banalmente, che dal caso Palamara in poi conservare il CSM così com’è non era più possibile. Dopo di che, ho i mei dubbi che la revisione del sistema elettorale riuscirà a porre rimedio a una crisi che ha radici profonde. Anche in questo, magistratura e politica vanno a braccetto. La crisi della rappresentanza riguarda l’organo di autogoverno dei giudici come le assemblee elettive, ed è simile anche l’illusione di risolvere tutto con un diverso sistema di voto. Purtroppo, non sarà così».
Tra le novità del testo spicca l’approvazione di un sistema elettorale misto, in cui trova spazio anche la questione legata al sorteggio per arginare il sistema delle correnti. Crede che il punto di incontro trovato basterà a risolvere questo annoso problema o si dovrà fare altro?
«Il sorteggio era semplicemente incostituzionale, oltre che offensivo della dignità dei magistrati. Io sono fra quelli che credono nella democrazia rappresentativa e nella politica, nel dialogo e nel confronto trasparente fra posizioni diverse. Non mi spaventano le correnti, mi terrorizza la loro degenerazione, il mercimonio delle funzioni, lo scambio di favori. E il rapporto occulto con il potere politico, che il sistema Palamara ha disvelato».
Crede che ci sarà una levata di scudi da parte dei magistrati sul testo approvato in Cdm oppure ritiene che verrà accolto come una svolta dopo tutte le vicissitudini che hanno colpito la categoria?
«Sono abbastanza convinto che la riforma passerà senza grandi sommovimenti. Il mio timore è che tutto cambi perché nulla cambi. E sono certo che non cambierà molto se non saremo capaci di affermare una nuova cultura della giurisdizione fra i magistrati, fra gli avvocati e fra tutti i cittadini. La crisi che stiamo vivendo è innanzi tutto una crisi culturale».
Con la riforma del Csm che arriva dopo quelle del processo penale e civile, a suo parere può dirsi chiuso il piano di riorganizzazione della Giustizia?
«Al contrario, sono convinto che la stagione delle riforme sia appena iniziata e che occorrerebbero cambiamenti ancora più radicali. La crisi di legittimazione della giustizia danneggia tutti, e per porvi rimedio non basta riorganizzare l’esistente. È necessario ripensare alla formazione e al reclutamento dei magistrati, perché senza cultura delle garanzie ogni riforma è vana. Basta vedere la legge sul rafforzamento della presunzione di innocenza: qualcuno si è accorto che da qualche mese è entrata in vigore?».

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