Peschici, l’antica abbazia di Santa Maria di Kàlena è visitabile fino a settembre: fu cara al Barbarossa

La possibilità di visitare uno dei luoghi più suggestivi della devozione garganica chiama a una maggiore conoscenza dell’abbazia di santa Maria di Kàlena, in agro di Peschici, è da annoverare fra le più antiche d’Italia.

Sarebbe stata eretta, secondo lo storico e giureconsulto Pietro Giannone nell’872 dopo Cristo. Probabilmente vi fu una prima presenza di monaci basiliani. Un edificio sacro esisteva nell’XI secolo, come testimonia un atto di donazione del 1023: il vescovo di Siponto donò “l’ecclesia deserta in loco qui vocatur Kàlena, cuius vocabulum est sancta Maria” all’abbazia di Tremiti, fornendo tutte le necessarie pertinenze: un orto, una vigna, dei terreni da coltivare che permettessero ai monaci benedettini di poter vivere senza problemi, trasferendosi in terraferma. Nel 1058 il cenobio divenne una potente abbazia. Via via che papi ed imperatori le concedevano ricchi privilegi, i suoi beni si estesero oltre l’area garganica fino a Campomarino e a Canne.

L’abbazia di Monte Sacro, presso Mattinata, era una di queste ricche dépendances, ed ebbe un secolare contenzioso con la casa-madre, che non voleva concederle assolutamente l’autonomia. Per rendersi conto dell’entità del prestigio di Santa Maria di Kàlena, basta ricordare che nel 1420, quando era già in declino, i beni in suo possesso consistevano in circa trenta chiese del Gargano Nord, con relative pertinenze di mulini, case, terre, oliveti, diritti di pesca sul Varano e diritti feudali sulla città di Peschici e sul Casale di Imbuti. Contesa dai potenti monasteri di Tremiti e Montecassino, essa riuscì a restare indipendente fino al 1445, quando fu inglobata definitivamente a Tremiti, sotto i Canonici Lateranensi.

È certo che l’abbazia di Santa Maria di Kàlena accolse molti pellegrini, famosi e non, che sbarcavano sui litorali del Gargano Nord per recarsi al Monte dell’Angelo.

I redditi derivanti dalle numerose donazioni dei fedeli le servirono indubbiamente per assolvere degnamente questa funzione di ospitalità. Giuseppe Martella, citando l’abate Benedicto Cochorella (che nel 1508 scrisse una Cronaca Istoriale di Tremiti), afferma che l’abbazia si rese importante e ricca per concessioni e privilegi di principi, papi, imperatori e fedeli. Questi, per recarsi alla miracolosa grotta dell’Arcangelo S. Michele, facevano lungo il cammino la prima tappa a Kàlena e dopo presso i santuari siti nella montagna garganica. I monaci benedettini coltivavano, in un esteso orto botanico, innumerevoli varietà di erbe officinali proprio per curare i pellegrini bisognosi di cure e di ristoro. La presenza di pellegrini stranieri all’abbazia di santa Maria di Kàlena è documentata dai resti delle sue fabbriche conventuali, visibili a tutti ancora oggi.

Critici e storici dell’arte come Emile Bertaux e Adriana Pepe hanno analizzato, nelle loro pubblicazioni, le due chiese presenti nel complesso badiale: presentano rare ed interessanti tipologie di architettura pugliese, europea ed extraeuropea. Se la prima chiesa dell’abbazia si inserisce infatti nel solco di un’originale tradizione costruttiva pugliese, quella delle cupole in asse, la più recente seconda chiesa, che si addossa all’edificio più antico, fu costruita con soluzioni architettoniche di vasta circolazione europea ed extraeuropea da quelle maestranze itineranti di scalpellini, di origine borgognona, che percorrevano nei due sensi, con il traffico di pellegrini e crociati verso la Terrasanta, la ‘Via Francigena’. Giuseppe Martella, in “Peschici illustrata”, citando un documento del 1275 rileva che soltanto due porti dell’Adriatico erano adibiti per l’imbarco di legname per la Francia: quello di Manfredonia e quello di Peschici. Questo interessante dato lo autorizza ad affermare che a Peschici a quel tempo esistevano delle strutture portuali valide e attrezzate per imbarchi di materiali.

Intorno a Kàlena, luogo-simbolo dell’immaginario collettivo di Peschici, non mancano suggestioni e leggende Dall’abbazia, un camminamento sotterraneo portava alla ‘caletta’ del Jalillo: serviva ai frati per sfuggire alle frequenti scorribande saracene. Da un’acquasantiera, posta in fondo alla navata sinistra della chiesa nuova, giungerebbe il rumore della risacca marina. Una leggenda popolare narra che Federico Barbarossa, in cammino verso la grotta dell’Angelo, vi fece una sosta dolorosa: seppellì nella cripta la sua figlia prediletta, ammalatasi durante il viaggio. Le pose, come singolare cuscino, un vitello d’oro. Questo tesoro prezioso gli abitanti di Peschici lo hanno cercato invano, dimenticandosi che è in piena luce, sotto i loro occhi.

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