Multietnico e sovraffollato: la vita nel carcere di Bari – IL REPORTAGE ESCLUSIVO

Nella prima “camera” a destra due africani, originari del Mali, spalle alla finestra sbarrata, pregano per il terzo dei sei riti quotidiani. Quella affianco, con la tendina colorata, i cuori di cartoncino e i miniposter di bionde platinate e succinte alle pareti, ospita due baresi “fine pena maggio 2038”.

Nella Babele di etnie, lingue, tipologie di reati, condizioni di salute differenti e appartenenza a clan contrapposti, nel carcere di Bari sorprende un insolito ordine. Piccoli mondi concentrici, in un macrocosmo separato dal “fuori” da un muro di cinta, nei quali si fatica non poco a tenere un equilibrio.

E non è solo un problema di numeri: 431 (ndr, aggiornato a ieri) detenuti in una struttura del 1920 che su carta ne può ospitare al massimo 299. L’ormai atavica questione del sovraffollamento, pluridenunciata e mai risolta, è la cifra che comprende il tutto. «Tanto per cominciare abbiamo cinque reparti detentivi composti da persone che non si possono incontrare – premette la direttrice della Casa circondariale di Bari, Valeria Pirè – Ma il problema principale è che buona parte dei detenuti ha patologie fisiche (o psichiche, ne abbiamo 120 seguiti dal Dipartimento di Salute mentale) di varia natura (oncologiche, degenerative e altre disabilità). Abbiamo reso idonee alcune stanze, ma non è sufficiente e quindi spesso restano in cella con altri. Un problema che sta diventando esplosivo».

E ancora, la difficoltà di garantire un trattamento dignitoso per gli extracomunitari che non conoscono la lingua, magari arrestati all’aeroporto o al porto, di passaggio, sradicati sul territorio, a forte rischio suicidiario. Difficili da assistere, curare, se non dopo settimane di lavoro dell’equipe che si occupa, tra l’altro, della presa in carico dei casi critici: tre persone che svolgono attività per il recupero sociale, tra lavoro, sport e cultura e che in staff multidisciplinare si occupano tra l’altro, proprio della prevenzione dei suicidi.

Un progetto dell’Arci, finanziato dal Garante dei Detenuti inoltre fornisce, su richiesta, operatori che parlano dialetti di varie etnie per quelli che non conoscono le lingue più diffuse, e uno sportello legale, a supporto della forte rete di mediazione culturale interna alla struttura. Ciò che manca, denuncia Valeria Pirè, è «la possibilità di programmare le attività ma anche e soprattutto una visione d’insieme, in particolare per quanto riguarda la sfera sanitaria».

Le grandi cucine con le moka da 18 tazze, i pentoloni e i carrelli che distribuiscono il pranzo alle 12.30, sono pulite grazie al lavoro di alcuni detenuti. Sono quelli che hanno dimostrato un comportamento positivo, partecipando attivamente a quell’opera di rieducazione che dovrebbe essere alla base di ogni pena detentiva. «Ho finito ora di cucinare per 200 persone», dice invece Giovanni (ndr, il nome è di fantasia per tutelarne la privacy). Sulla soglia della cella, «si chiama camera di pernottamento», spiegano, ci introduce nel suo piccolo mondo di tre metri per tre: la tenda colorata alla finestra, lo stendino con la roba pulita ai piedi del letto, la mensolina sul perimetro con la caffettiera, il televisore a schermo piatto, sigarette e phon. La foto di sua moglie, quella no, non è esposta, la tiene al sicuro nell’armadio: «Mi sono sposato in carcere tre anni fa», la mostra orgoglioso. Il futuro è lontano 16 anni, intanto cucina: «Mi piace assai, mi piace preparare qualsiasi cosa».

Paolo è nella sala colloqui al piano terra, usa lo smartphone per parlare con sua moglie, la versione tecnologica dell’ora di incontro coniugale che gli spetta sei volte a settimana. In quella attigua una coppia scherza. Un giovanissimo extracomunitario viene portato, spaesato, nella stanza per la fotosegnalazione e il rilievo delle impronte. Gli agenti della polizia penitenziaria sono ovunque, solleciti e fermi. «Sulla carta ne abbiamo un numero sufficiente, 274 su 276 previsti – spiega la comandante Francesca De Musso – ma nella realtà sono molti meno, fra distaccamenti in altre sedi e altre problematiche». Piccolina e leggera, attraversa corridoi, saluta detenuti, li ammonisce col sorriso a tenere tutto pulito e in ordine, e loro le si rivolgono con rispetto. «Un numero che in ogni caso non tiene conto delle reali esigenze e peculiarità di questa casa circondariale», tra la vocazione sanitaria, le sezioni di alta sicurezza (due su cinque) e la presenza di clan contrapposti.

La piccola chiesa con l’altare luccicante, le aule scolastiche con i banchi delle elementari, il biliardino e il tavolo da ping pong, i pacchetti di sigarette vuoti nel cortile, i cartelli scritti a mano con i pennarelli al posto delle targhe sulla porta degli uffici. «Questa per me è casa», dice Carlo, dimenticato dai parenti. Difficile pensarlo, mentre le chiavi girano nella toppa del cancello che si chiude ad ogni passaggio, i quattro metal detector suonano se indossi la cinta con la fibbia di metallo o le scarpe che, sicuramente, contengono parti di metallo.

Video di Gianni De Vecchis.

Il reportage esclusivo dal carcere di Bari

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