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Michele Riondino: «Primo Maggio e Medimex. Siamo tornati»

Taranto sempre più città della musica oltre che dell’arte, della cultura e dell’archeologia. Mentre le dinamiche internazionali, a partire dalla guerra, le chiedono di produrre più acciaio, sul territorio da tempo è in atto un moto di trasformazione che pretende di rimettere al centro la bellezza. Non solo a giugno tornerà il Medimex, il grande evento organizzato da Puglia Sound con concerti, mostre e workshop, ma anche Uno maggio Taranto, l’iniziativa musicale ma soprattutto sociale promossa dal Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti. Un evento che nel giorno della festa del lavoro ricorda al Paese che non può esserci vero sviluppo senza il rispetto dell’ambiente e della salute. Michele Riondino, attore ma soprattutto tarantino, è il fil rouge tra questi due eventi.

Michele Riondino, quante cose sono cambiate dalla prima edizione del “concertone” nel 2013?
«Tantissime. Direi tutto. La città si è “autoilluminata” con riflettori diversi».
Il Medimex è la ciliegina sulla torta.
«In pochi pensavano che Taranto fosse la città giusta su cui costruire un evento di quella portata. Grande merito va a Cesare Veronico, il direttore di Puglia Sound, per averci creduto. L’amicizia che è nata da quella prima telefonata ha portato alla nascita di una nuova famiglia in grado di costruire sogni sempre più grandi. È un evento davvero straordinario».
Cosa vi diceste in quella conversazione?
«Mi parlò degli artisti che avrebbero partecipato all’edizione del 2018. Mi vennero le lacrime agli occhi».
Prima del Medimex ci sarà Uno maggio Taranto. Tutto confermato?
«Sì, il Comitato sta lavorando per arrivare pronti ai nastri di partenza, così come Roy Paci e Diodato che mi affiancano nella direzione artistica. Una prima line up degli artisti è già pronta. C’è una grande voglia di riempire le piazze e di tornare a discutere del cambiamento necessario. Fin qui quello che dipende da noi. Speriamo che la pandemia molli la presa».
Nel 2017 Uno maggio Taranto è saltato perché c’erano le elezioni comunali. Cosa cambia quest’anno?
«Non verrà data visibilità a nessun candidato. Ha un significato troppo importante questa edizione per essere saltata. Veniamo da due anni chiusi in casa. Abbiamo una voglia incredibile di rincontrarci sotto quel palco. Lo vogliono soprattutto gli artisti».
Musica ma anche contenuti.
«Vogliamo riportare al centro del dibattito i nostri temi pur non occupandoci delle elezioni comunali. Poi, chi conosce questo evento sa che a inventarlo è stato Massimo Battista che oggi è candidato a sindaco. Una persona che stimo molto e che ha sempre dato il cuore per realizzarlo restando anche lontano dai riflettori. Neanche lui farà campagna elettorale su quel palco».
La guerra intanto rischia di rallentare la transizione ecologica.
«C’è una forte spinta industrialista. Non dobbiamo dimenticare però che Taranto ha già dato».
La scorsa settimana Acciaierie d’Italia, proprietaria dello stabilimento, ha confermato ai sindacati l’intenzione di arrivare a una produzione di 5,5 milioni di tonnellate nel 2022. L’Italia chiede acciaio.
«Quella fabbrica ha concluso il suo ciclo. Purtroppo gli eventi spingono in una direzione che è ben lontana dalla tutela del territorio e della salute, così come dallo sviluppo delle energie rinnovabili. Questo non cambia però la mia idea rispetto al siderurgico, anche perché 5,5 milioni di tonnellate incidono in minima parte sull’acciaio che importiamo dall’estero. Il fabbisogno italiano non è minimamente soddisfatto da Taranto. Senza dimenticare il problema delle materie prime».
Che fare allora?
«Noi continueremo a pretendere quella giustizia che ci è negata. I veri giocatori in campo, però, sono altri».
Chi?
«I partiti che non hanno nulla da ribattere di fronte alla volontà di aumentare la produzione. Continuano a buttare sabbia negli occhi».
Anche con la decarbonizzazione?
«Sì. La collegano all’aumento di produzione. Io continuo a sperare in un progetto di bonifica che parta dallo smantellamento della fabbrica, utilizzando i lavoratori impiegati nell’ex Ilva. Servirebbero trent’anni impiegando il triplo degli operai che oggi lavorano in azienda. Lo dice uno studio dell’Eurispes, non io. Lo Stato, d’altronde, sta già sostenendo costi enormi per tenerla aperta».

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