«Sono stato trattato come il peggiore dei criminali. Ci sono voluti 17 anni perché la mia innocenza fosse riconosciuta. Non è normale, la politica deve fare qualcosa»: nelle parole di Michele Padovano ci sono il dolore e lo sfinimento, la rabbia e la sete di giustizia di chi ha affrontato un lungo calvario. Arrestato nel 2006 con l’accusa di essere un narcotrafficante, condannato in primo grado e in appello, l’ex attaccante di Napoli e Juventus è stato definitivamente scagionato soltanto nel 2023. Quell’esperienza drammatica è al centro di “Tra la Champions e la libertà”, libro che sarà presentato stasera alle 22 a Polignano a mare, in piazza dei Serafini, nell’ambito della rassegna “Il libro possibile”.
Padovano, il suo compagno di cella diceva che i processi sono come gli incidenti stradali perché possono capitare a chiunque: è normale?
«No, ma è così. D’altra parte, se in Italia si sono verificati circa mille errori giudiziari l’anno dal 1991 a oggi e lo Stato ha sborsato circa un miliardo di euro per indennizzare le persone, vuol dire che qualche lacuna c’è».
Che tipo di lacuna?
«Non entro nel merito. So soltanto che la vicenda che ho dovuto affrontare mi ha fatto male. Ne sono uscito, comunque, e non ho rancore».
Che ricordo ha di quei 17 anni?
«Un ricordo terribile. Non è passato un solo giorno senza che mi svegliassi o andassi a dormire senza pensare a quella vicenda. Ma ho sempre creduto nella giustizia».
Partiamo dall’arresto: una scena da film, con le auto dei carabinieri che le sbarrano la strada…
«Le modalità del mio arresto sono state molto dure e forti. Come dura e forte è stata l’esperienza in carcere, in particolare nei dieci giorni di isolamento: senza stare all’aria aperta, facendo una sola doccia… Un trattamento disumano, degno del peggior criminale».
Com’è il carcere?
«Terribile. In alcuni documentari si vedono celle con doccia e ogni tipo di comfort. Io non li ho mai visti. Anzi, posso dire che la mia esperienza in carcere è stata deprimente. Lì dentro la mia dignità è stata calpestata. Ma una nota positiva c’è stata».
Quale?
«In cella c’era una grande umanità. Inizialmente ho creduto che il trattamento positivo riservatomi dagli altri detenuti fosse legato alla mia fama di calciatore. Invece, lì dentro, l’aiuto non si nega a nessuno, a patto che ci si dimostri uomini con la u maiuscola».
Fuori non è così?
«No. Ho dovuto fare i conti con i pregiudizi e gli sguardi poco benevoli della gente. Per fortuna la mia famiglia e io abbiamo fatto gruppo e ne siamo usciti. Mi dispiace soltanto che per questa vicenda mio padre si sia ammalato e alla fine sia morto».
Chi le è stato più vicino tra i suoi colleghi?
«Gianluca Vialli. Ogni settimana telefonava a mia moglie per informarsi sulle mie condizioni. Era un uomo di grande spessore. Non c’è un giorno in cui io non gli rivolga un pensiero. Non morirà mai».
Altri?
«Nel 2006, in piena bufera, la Nazionale vinse i mondiali di calcio. Ero felice, ma nessuno pensò di inviarmi un telegramma. Pazienza, niente rancore».
Alla fine è arrivata l’assoluzione: chiederà la riparazione per l’ingiusta detenzione?
«Certo. Potrei ricevere 30mila euro di indennizzo. Ma anche se fossero dieci, qualcuno dovrà darmeli. Sebbene, in certi casi, non ci sia risarcimento che basti. In 17 anni ho perso quasi tutto. E in cella ho visto almeno cinque persone innocenti: tutto ciò non è normale».
È normale restare nella morsa della giustizia per 17 anni?
«No. Come non sono normali le fandonie raccontate da certa stampa. Non giudico nessuno e non dispenso consigli. Ma la politica deve intervenire. Una riforma della giustizia è necessaria al pari di una riflessione nel mondo dell’informazione».