Ira e dolore? Si sconfiggono con la poesia. La lezione di Sylvia Plath, poetessa ribelle

“Spacca tutto, finché non prende fuoco!” Questo il monito di Ted Hughes, poeta laureato inglese a sua moglie, l’americana Sylvia Plath, che in quel momento non era ancora il mito femminista oggi noto a tutte e a tutti, ma soprattutto non era ancora la voce poetica titanica che da lì a poco risuonò in tutto il mondo. Ho avuto modo di ascoltare l’estratto sonoro di una delle sue poesie più amate ed emblematiche, “Lady Lazarus”, e posso assicurare che la dimensione orale ci restituisce l’intonazione della sua anima, l’energia vitale di un personaggio unico, di cui però per troppo tempo si è celebrata soprattutto la morte. Estrema ribellione al marito, allo spettro del padre e in senso ben più ampio e profondo al modello di cultura patriarcale, il suo suicidio, l’11 febbraio del 1963, fu indubbiamente un gesto anticipatore e rivelatore dell’inquietudine e dell’urgenza di cambiamento di un’epoca e a ragion veduta il nascente movimento femminista la elesse a martire in una sorta di investitura ideologica.

La poesia

Ma Sylvia Plath non voleva essere un simbolo, voleva diventare poeta. Questa è stata la lotta che ha combattuto nella sua esistenza, breve ma intensissima, ed è per rendere omaggio alla sua vera vocazione che, a sessant’anni da quella mattina fatidica, Mondadori ha voluto ripubblicare il volume che in Italia segnò una tappa fondamentale nella ricezione della sua opera: “Sylvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie”, edito nel 1976 nella traduzione di Giovanni Giudici. Perché se è vero che la versione italiana del poeta e studioso non è priva di fraintendimenti e che Amelia Rosselli, con il suo cuore libero e nudo, fu in assoluto l’interprete più autentica e affine della sua poesia, è anche vero che venne dopo e trovò la strada spianata. Quel che è sicuro è che la poeta di Boston è autrice difficilissima da trasferire in un altro codice linguistico, proprio per il carattere specifico e la qualità estrema del suo lessico, oltre che per le frequenti figure di suono che ritornano nei suoi versi. Giudici capì chi si trovava di fronte, non cedette alla tentazione di un approccio psico-biografico e si calò nell’arte di Plath, nelle sue sapienti e lucide costruzioni strofiche. Pur appartenendo alla “scuola confessionale”, ossia a quella corrente della poesia americana che negli anni ’50 reagisce al formalismo e alla poesia come veicolo di ordine e di redenzione, proponendo temi scomodi, legati alle esperienze più dolorose della vita privata, il suo grido è sempre “controllato” o quanto meno guidato, da una mente in piena padronanza degli strumenti di cui il verso si serve.

Le opere

In “Daddy”, per esempio, si esprime la conflittualità della sua relazione con la figura del padre, morto quando lei aveva solo otto anni per essersi rifiutato di curare il diabete. Sulla scorta delle origini austriache, il genitore è assimilato a un soldato nazista e la figlia a un ebreo. Plath dinanzi al padre si sente Dachau, anzi è Dachau. La trasfigurazione letteraria, benché molto discussa dai critici, rende con evidenza massima l’oppressione avvertita dall’autrice, inoltre, ad essa si associa la ripetizione ossessiva, in ben 41 su 80 versi, del suono “ou”, che richiama l’iniziale “you”, marcando l’invettiva e facendone una requisitoria devastante contro il padre/imputato, una Norimberga famigliare. Plath spacca tutto e lascia che tutto prenda fuoco, come le aveva consigliato il marito, ma regola con intelligenza l’intensità delle fiamme: Leonetta Bentivoglio lo chiama “il lamento della regina”, una regina che canta con ritmi rock. Ma il componimento che Giudici preferisce è “Lady Lazarus” e se si conosce la produzione del poeta, non ci si sorprende. “L’ho rifatto/ un anno su dieci/ ci riesco”. Nella poesia della Plath ciò che colpisce subito chi legge è l’esibizione, meglio la teatralizzazione, del tentativo di suicidio. La poeta comincia in medias res e con un gioco ipnotico di rime finali ed interne ci trascina sul palcoscenico della sua interiorità ferita ma trionfante, la sua vicenda personale diviene un rituale stregonesco di morte e rinascita universali.

I sentimenti

Su “angor”, ira, e “pain”, sofferenza, domina Poetry, ecco il motivo per cui la sua poesia ci arriva ancora così potente e sa scuoterci dai pensieri e dai gesti quotidiani, catapultandoci in pochi versi sulla scena di una tragedia classica. Plath fa esattamente quello che un poeta deve fare: usare la disciplina della parola per testimoniare, prima ancora che la morte, tutta la vita gli si agita dentro.

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