Esame di tecniche della fotografia al Dams di Bologna, è il 9 giugno 1975, il professor Zannier ha davanti a sé Pazienza Andrea e Nardella Gino. Esame di gruppo, come si usa dal ‘68 nelle facoltà radical-chic. Sul tavolo 180 foto in bianconero scattate da Andrea a Gino con una Canon e da Gino ad Andrea con una Asahi Pentax. Location: Peschici, provincia di Foggia. A quell’esame Nardella prende un misero 24: il voto più basso del suo libretto pieno di trenta. Gino non ricorda il perché, né può ricordarlo il suo amico Andrea. Non c’è più.
Cinquanta di quelle foto scattate da Nardella, dopo un’operazione di restauro del fotografo Francesco Gravino, che diventò il “pezzo forte” di una mostra itinerante dello scrittore-cabarettista con una performance in ricordo di Paz (“un genio italiano del 20esimo secolo”), furono pubblicate nel catalogo-amarcord “Uno ogni sacco d’anni”. Sfogliandolo, si resta stupiti nel vedere un giovanissimo 19enne Andrea Pazienza che, con un metro da muratore in mano, “misura” cose, animali, persone, case, ogni angolo di Peschici.
Longilineo, con occhiali Ray-ban, jeans e maglietta nera con un paio di vistose bretelle bianche, dopo aver sondato la profondità del mare, ci presenta Peschici dalla splendida visuale di Montepucci per raggiungere poi l’abitato, prendere “la misura” di una delle storiche fontanine dell’Acquedotto Pugliese, percorrere corso Garibaldi, indi squadrare “la Torre del Ponte”. Paz non demorde nella sua ardua impresa: misura in orizzontale e in verticale un asinello parcheggiato davanti a una casa. Ne centimetra le lunghe orecchie.
Prosegue nel borgo antico, misura uno degli “anelli” posti sui muri, dove vengono attaccate le briglie dei quadrupedi, le calze stese ad asciugare davanti a una cisterna. Dopo squadra il portale di una tipica casa di Peschici, di fronte allo sguardo stupito di una vecchietta.
Imperterrito, con un sigaro stretto fra i denti, continua a misurare luoghi, muri e stipiti, inferriate, scalinate, gradini, panni stesi al sole nelle strette vie del centro storico. Nelle foto si riconosce una signora, “Sina ‘a roscia” (Teresina la rossa), intenta a spazzare il marciapiede di via Colombo davanti alla sua casa immortalata da molti turisti perché sul muro sono sospesi due barattoli di latta (buatte), a mo’ di vaso, sempre fioriti di basilico e gerani. Prosegue il suo cammino sulle vie vicino al corso. Si ferma a osservare un vecchietto che, seduto su una sedia impagliata davanti alla porta di una bottega, gioca con un piccolo cane randagio. Quindi giunge alla chiesa di sant’Antonio. Ci sono due ragazzine. Una si presta al gioco facendosi misurare, come i vecchietti che si prestano anche loro, incuriositi, ma non più di tanto.
Alcuni “scatti” colpiscono per la loro densità di significati. Andrea è fermo davanti alla grande croce piantata negli anni Cinquanta dai passionisti di padre Ernesto in località Borghetto a Mare, di fronte alla “Curva del Guardaro”. Vi sale e, mimetizzando per un attimo il metro sotto un braccio della croce, simula il Cristo. Crocifisso di fronte al mare stagliato all’orizzonte. Lo ritroviamo nel Recinto Baronale del Castello: sulla porta di legno della chiesetta di San Michele Arcangelo compone, con il metro snodato, una grande croce che si aggiunge alle tante altre piccole inchiodate lì “ab immemorabili”, in funzione apotropaica, dai peschiciani.
Andrea è ora davanti al Municipio, dove c’è il monumento dei caduti della Grande Guerra. Sembra indicare, con tre dita della mano, gli anni della guerra: tre anni per 39 peschiciani morti, “ufficiali”, senza contare i dispersi. «Andrea – scrive Gino Nardella – andava pazzo per lo struggimento spirituale che gli dava il Gargano, terra dura e pericolosa, bella e cattiva come il mare. Di personaggi come lui se ne vede uno ogni 100-150 anni. Uno ogni sacco d’anni, appunto».