Giustizia, parla Lattanzi: «Va organizzata non riformata. Le intercettazioni? Priorità ad altro»

Processi infiniti, riaperti e annullati, sui banchi dei tribunali anche per decenni. Carceri sovraffollate e veri e propri tuguri inaccettabili per una democrazia. Pubblici ministeri che troppo spesso rubano la scena ai giudici. La giustizia italiana è affetta da una vera e propria malattia cronica, che si porta avanti ormai da più d’un trentennio. «Eppure – spiega Fabio Lattanzi, avvocato penalista del Foro di Roma, che per L’Edicola del Sud traccia un quadro limpido del sistema giudiziario nazionale – non occorre riformare la legge, basterebbe, in alcuni casi, soltanto applicarla».

Avvocato, le intercettazioni sono il tema del momento. Il ministro della Giustizia Nordio ha più volte sollevato la necessità che questo strumento vada rivisto, ma non ha ancora detto come. Che ne pensa?

«Discutere sulla loro revisione senza avere un testo, è un esercizio difficile: non si annuncia una riforma senza tratteggiarla. Mi è sembrato più preciso il sottosegretario Del Mastro, che ha parlato di una limitazione sul versante della loro pubblicazione, fenomeno già affievolito grazie alla riforma Orlando. Che in passato vi sia stato un problema relativo sia alla fuoriuscita delle intercettazioni sia al fatto che si sia abusato di questo strumento è un dato di fatto. Ed effettivamente, al giorno d’oggi, è diventato lo strumento d’indagine prioritario. Fondamentale sarebbe anche andare oltre la captazione della conversazione: occorrerebbe anche verificare il reato avvenuto. Noi continuiamo a riformare la legge, non capendo che talvolta basterebbe applicarla. L’applicazione della legge attualmente in vigore limiterebbe di gran lungo il ricorso alle intercettazioni sia per quanto riguarda la captazione che per la pubblicazione. Oggi come oggi, con una giustizia in stato catatonico, il tema delle intercettazioni non mi sembra fondamentale».

Forse separare le carriere potrebbe essere la soluzione?

«Dipende dal modo in cui si declina il problema. Abbiamo i pubblici ministeri che hanno occupato la scena della giustizia. Ai convegni, ai microfoni della televisione, un tempo si trovava il giudice, oggi i pm. Se la separazione delle carriere desse loro più potere, allora penso che non si vada da nessuna parte. Oggi come oggi, i pm sono già una categoria a sé stante, separata ma che continua a vivere con i giudici. Se la guardiamo da questo punto di vista, la separazione è necessaria, perché l’avvocato, davanti al giudice, deve avere gli stessi diritti di un Pm: non è corretto che, ai processi, i Pm chiamino i giudici “colleghi”. È indice di un qualcosa che si è inceppato».

Allora quale problema da risolvere dovrebbe avere la priorità attualmente?

«La giustizia, intesa in senso corretto come applicazione del diritto e repressione del reato, in questo Paese è in coma. Assistiamo a processi iniziati anni e anni fa e ancora fermi in qualche aula di tribunale. La mia idea di giustizia è un’idea che passa attraverso la necessità di individuare il reato, processare e condannare il colpevole. In tempi precisi: se applichiamo la pena dopo decenni è un errore giudiziario, perché la pena non deve solo punire il colpevole, ma anche fungere da deterrente per altri reati. Quando la premier Meloni ha incontrato Nordio, ha sottolineato la necessità di dover realizzare in Italia un processo giusto e veloce».

A cosa si deve la proverbiale lentezza della giustizia italiana?

«Fino agli anni ’80, avevamo un sistema che prevedeva l’amnistia ogni quattro anni, consentendo di svuotare i processi meno importanti. Nel ’90, con Tangentopoli, per legiferare sull’amnistia si è deciso di agire con una legge costituzionale. È stata un’ipocrisia: finita l’era dell’amnistia, è iniziata l’era della prescrizione. Oggi si è bloccata la prescrizione, ed è facile prevedere che ci sarà un blocco dei processi penali. Ma, forse come diceva Pannella, amnistia e indulto erano toppe peggiori del buco. Allora per consentire lo snellimento di questi processi, bisogna ragionare quasi in un’ottica aziendale. L’azienda giustizia è lasciata al caso, senza scadenze e rimessa al singolo: il bravo giudice riesce a portare a termine i processi, quello meno bravo no. Edilizia giudiziaria, carenza di personale ma anche preparazione dei giudici. È impensabile, per esempio, che un giudice le cui sentenze vengono ripetutamente capovolte in Appello rimanga al suo posto. Non basta sottoporre i potenziali magistrati a un concorso completamente mnemonico, c’è bisogno di introdurre una nuova mentalità, quella della formazione continua e del monitoraggio dell’attività giudiziaria. Allora capiamo bene che la giustizia non va riformata, ma organizzata».

Come tutto questo ha effetti sul sistema carcerario?

«In questo Paese si crede ancora che l’unica pena sia il carcere. È un pensiero medievale: dobbiamo evolverci. Abbiamo delle carceri vergognose. Siamo pieni di persone in attesa di giudizio, e già questo non si può sentire. Oltre a essere sovraffollati, abbiamo carceri fatiscenti. Se guardiamo all’Europa, questi cambiamenti sono già avvenuto. C’è gente che, ai tempi del Covid, è impazzita a stare chiusa in casa per un mese e qui si discute ancora se è giusto o meno avere una televisione in carcere. È chiaro che bisogna tenere conto del reato compiuto o della pericolosità del detenuto, ma buona parte delle persone in carcere potrebbero essere tranquillamente reintegrati nella società civile, ospitati in strutture più adeguate. Anche perché abbiamo tanti strumenti per monitorare l’effettiva limitazione della libertà, come il braccialetto elettronico. Ma, al giorno d’oggi, se la civiltà di un Paese si misurasse dalle carceri, noi probabilmente saremmo fermi alla legge del taglione».

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