Si è conclusa con l’ennesimo rinvio l’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia a data da destinarsi e la convocazione del cda per giovedì prossimo. Grande assente è stata Invitalia, la società a capitale pubblico che detiene il 38 per cento delle quote societarie.
La mancata partecipazione sarebbe il frutto di una strategia del governo, tesa a “stanare” il socio privato, ArcelorMittal, ma anche a non arrivare a una rottura ufficiale. La proposta sul tavolo, quella dei francoindiani, sarebbe la stessa già presentata in passato e non garantirebbe infatti la continuità aziendale e la copertura dei costi di fabbisogno. Questi ultimi, secondo indiscrezioni, non sarebbero di 320 milioni di euro, cifra individuata dall’amministratrice delegata di Acciaierie Lucia Morselli, ma superiore a 1,3 miliardi. Risorse per pagare le bollette e i costi correnti per tenere in vita la fabbrica.
Più passa il tempo, d’altronde, e più la scarsa produttività del siderurgico impatta sui conti. Numeri che rendono bene l’idea del rischio che si sta correndo e delle ripercussioni che una rottura ufficiale tra le due anime della società avrebbe sul mercato. Un problema, però, che sembra solo rimandato quando sul tavolo dell’assemblea arriverà la nuova delibera, che dovrà definire il prossimo cda, che non potrà non prevedere il necessario aumento di capitale.
L’indirizzo intorno al quale si sta muovendo il governo prevederebbe un incremento di 320 milioni a cui i soci sarebbero chiamati ad aderire entro il 31 gennaio al prezzo di un euro ad azione. Dopo questa scadenza, qualora uno dei soci si sia tirato indietro, un amministratore delegato temporaneo avrebbe tempo fino al 15 marzo per offrirle a terzi, con diritto di prelazione per chi rimarrebbe tra Invitalia e ArcelorMittal. In questo modo il governo si terrebbe aperte due strade: quella di trovare un nuovo socio privato alternativo ai franco-indiani o di procedere da solo all’aumento di capitale, nazionalizzando di fatto la fabbrica.
Giovedì prossimo sarà un’altra giornata cruciale e non è da escludere che il Consiglio dei ministri, che si riunirà lo stesso giorno, possa anticipare i tempi del commissariamento. Un percorso lento e difficile, dunque, che non convince però i sindacati. Questi ultimi continuano a chiedere la trasformazione del prestito già elargito dallo Stato per 680 milioni in aumento di capitale, rimettendo dunque in mano pubblica sin da subito le sorti della governance aziendale. «C’è il rischio sempre più concreto che salti tutto, senza l’assunzione di responsabilità da parte del Governo», hanno dichiarato ieri in una nota congiunta Michele De Palma, segretario generale Fiom-Cgil e Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, intanto, è stato l’unico componente del Governo ad essersi espresso ieri, ha confermato sempre per settimana prossima un nuovo incontro con i rappresentanti dei lavoratori. «Lavoriamo affinché l’Ilva continui ad essere un polo produttivo anche e soprattutto con le prospettive della riconversione green. L’unica cosa certa è che l’Ilva continuerà a produrre», ha sottolineato Urso. Nel frattempo una mano tesa arriva al Governo dall’opposizione, in particolare dall’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando. «L’ex Ilva è sul baratro, la situazione in stallo, non è però il momento delle polemiche», ha affermato l’esponente dem. «Se il Governo intende finalmente riprendere in mano la situazione, il Pd è disposto a collaborare per evitare la perdita di un asset essenziale per tutto il Paese e di migliaia di posti di lavoro», ha concluso l’ex ministro.