Crisi in Medio Oriente, parla Nabil Salameh: «Gaza è un inferno. Pronti a mobilitarci per i nostri fratelli»

«Ciò a cui stiamo assistendo in queste ore è solo l’inizio dell’ennesima tragedia per il mio popolo»: ne è convinto Nabil Salameh, il cantautore e giornalista originario di Giaffa, un tempo porto della Palestina, e figlio di una coppia di rifugiati in Libano. Nabil è anche uno degli animatori della comunità palestinese in Puglia ed è legato a doppio filo a Bari, città nella quale, nel 1997, fondò la band musicale dei Radiodervish insieme con Michele Lobaccaro.

Maestro, come commenta ciò che sta accadendo in Medio Oriente?

«Era inevitabile, vista l’ipocrisia e l’indifferenza che politica e giornalismo hanno riservato alla questione palestinese. Sono 70 anni che il mio popolo vive in un regime di apartheid. Il progetto coloniale fondato sulla supremazia di Israele ha tolto ai palestinesi la terra, la storia, uno Stato. La politica, da una parte, ha lasciato che questa situazione si incancrenisse, con i risultati ai quali assistiamo in queste ore. La stampa, dall’altra, ha dimostrato una tendenza al sensazionalismo più che a un’informazione attenta, costante, eticamente corretta. Lei, per esempio, mi ha contattato adesso ma, come le dicevo, i palestinesi vivono una situazione infernale da almeno 70 anni a questa parte».

Ha sentito parenti e amici, dopo gli ultimi sviluppi della crisi?

«Certo. E tutti hanno confermato ciò che penso: sono ore tragiche per quello che sta accadendo, ma forse ancor di più per quello che accadrà. Per i palestinesi la situazione attuale è peggiore di quanto il mondo dell’informazione lasci intendere: vivono in un carcere a cielo aperto, con i coloni israeliani che imperversano nei territori e l’esercito israeliano che colpisce obiettivi come gli ospedali, privi di difese e quindi in grado di assicurare più vittime. E questa situazione è destinata a peggiorare, visto che Israele gode di una sostanziale impunità davanti al mondo».

La comunità palestinese in Puglia si sta organizzando per aiutare i connazionali in Medio Oriente?

«Certo, ci stiamo mobilitando come abbiamo sempre fatto, soprattutto per far arrivare i medicinali in Palestina. Non sarà facile, visto che Gaza è una prigione a cielo aperto nella quale non entra nulla e dalla quale non entra nulla senza il via libera degli israeliani. E adesso ci attendiamo una ulteriore stretta».

Per il futuro ha più timori o speranze?

«Temo un ulteriore inasprimento della repressione e dell’azione militare israeliana ai danni del mio popolo. In passato è accaduta la stessa cosa e abbiamo contato migliaia e migliaia di morti. La speranza è che il mondo prenda coscienza dell’inferno in cui vivono i palestinesi: politica e informazioni si sono mobilitate per l’Ucraina, ma non alzano un dito per cancellare l’oppressione, l’occupazione e la condizione di apartheid che il mio popolo deve sopportare ormai da decenni. La stampa, in particolare, dovrebbe dimostrare onestà intellettuale e un interesse costante, non a singhiozzo, per certi temi».

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