«Avete creato la figura dello studente a tempo determinato». È questa la denuncia degli studenti che si sono riuniti in protesta all’interno dell’atrio dell’Ateneo di Bari. I giovani universitari chiedono a gran voce l’abolizione di questa «pagliacciata» spacciata per opportunità per ampliare il numero di studenti che vogliono accedere ai corsi a numero chiuso.
Un attacco endemico all’istruzione e alla salute mentale degli studenti, costretti a far fronte a ritmi serrati e alla possibilità di dover o attendere un anno per riprovare a entrare alla facoltà scelta o a studiare in corsi di studio “affini” pur di continuare a studiare. A questo si aggiungono cambi di regole nella costruzione della graduatoria che alla fine potrebbe non cambiare lo status quo.
Nel cortile del Palazzo Ateneo, l’Unione degli Universitari e Cambiare Rotta hanno organizzato un presidio contro la riforma del cosiddetto “semestre filtro”, il meccanismo che dovrebbe superare il numero chiuso in medicina, odontoiatria e veterinaria ma che, secondo gli studenti, si traduce in un semplice rinvio dello sbarramento.
«È stata una menzogna spacciata come rivoluzione», denuncia Adriano Porfido, coordinatore Udu Bari. Per il sindacato studentesco, la riforma crea una nuova figura nell’università italiana: quella dello studente a tempo determinato. Chi accede al semestre filtro, infatti, dopo i primi mesi non sa quale sarà il proprio destino accademico: se potrà restare nel corso, se dovrà cambiare sede, se sarà dirottato su corsi affini o, dove possibile, su corsi non affini in ritardo. Inoltre, come sottolinea Eric Difino di Cambiare Rotta: «Il 90% degli studenti non ha superato lo sbarramento».
Gli studenti contestano anche l’impatto psicologico della riforma e le ricadute sul diritto allo studio, soprattutto per chi attende le borse legate al semestre filtro. Porfido segnala inoltre le «gravi irregolarità sulle frequenze»: ogni ateneo ha stabilito requisiti diversi per accedere al test finale, creando disparità tra studenti con la stessa percentuale di ore frequentate. «Un paradosso che viola il diritto allo studio», afferma.










