Guerra e povertà, per l’arcivescovo di Bari-Bitonto Giuseppe Satriano, sono due temi profondamente legati tra di loro. Sono, dice il prelato, «due frutti maturi di un albero malato». E quest’albero si chiama «egoismo», «ricerca assidua del benessere», «ripiegarsi su se stessi». La pace, in tutto ciò, diventa un «tema fondante» e, per essere raggiunta, necessita di percorsi educativi. È tutta qui la sfida, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini. Proprio per questo, domenica scorsa, l’arcivescovo ha chiamato a raccolta i giovani della Diocesi per prepararsi al grande pellegrinaggio di pace che domani vedrà anche la presenza del presidente della Cei Matteo Maria Zuppi. Una veglia a cui hanno partecipato in centinaia, tra cui i reduci di guerre diverse.
Eccellenza, per quale motivo ha scelto di partire dai giovani?
«Credo profondamente che la pace sia il frutto di un lungo, e faticoso, processo educativo e non un atto puntuale raggiunto una volta per tutte. Nel mio ministero, ha sempre cercato di favorire percorsi che possano sostenere, a partire proprio dai giovani, momenti di analisi, di confronto e riflessione, in cui declinare il tema della pace, sia a livello religioso, sia a livello civile e sociale. Percorsi, insomma, che aiutino a orientare nella storia, nella geopolitica e facciano guardare a tutto ciò che condiziona i nostri vissuti».
Le nostre vite, ora, tornano a fare i conti col dramma della guerra. Come interpreta questo conflitto?
«Questa guerra giunge dopo anni di indifferenza, anni in cui abbiamo chiuso gli occhi di fronte a chi pativa la fame e le violenze. La guerra è il frutto maturo di quest’albero malato, cioè di una società che pensa di potersi ripiegare completamente su se stessa puntando solo alla ricerca del benessere. Quando si fa così, il cuore si indurisce e la guerra rischia di essere uno “sfogo naturale”».
Molto spesso papa Francesco fa appello allo spirito cristiano “portatore di pace”. La stessa Santa Sede si è proposta, svariate volte, come mediatrice in questo conflitto ai confini dell’Europa. Qual è il ruolo dei cristiani in tutto ciò?
«Il primo compito dei cristiani, ora come ora, è quello della testimonianza, a maggior ragione perché, quella a cui stiamo assistendo, è l’ennesima guerra tra cristiani. È successo già tantissime altre volte. Lo abbiamo vissuto con la seconda guerra mondiale e, più di recente, con la guerra dell’ex Jugoslavia. Di fronte a questa frattura che colpisce in particolar modo l’Oriente, ma chiama in causa anche l’Occidente, dobbiamo prendere atto che essere cristiani non significa essere tutelati rispetto alla guerra. Anzi: essa diventa una provocazione e una sfida quotidiana per destrutturare la propria esistenza dall’orgoglio e dall’egoismo. Due patologie dell’anima che attanagliano il vissuto di ogni uomo, nessuno escluso. In questo si riafferma il messaggio evangelico: la nascita e la resurrezione di Gesù sigillano il tema della pace come cruciale, in cui si gioca la partita di una testimonianza autentica».
Nelle zone coinvolte dal conflitto la gente lamenta la scarsità d’acqua, la mancanza di energia elettrica e spesso anche di cibo. Tutto ciò ha delle inevitabili conseguenze anche nei nostri territori: nelle parrocchie il numero dei poveri è in costante crescita.
«È vero e questo accade perché il problema dei poveri è sempre un problema di pace e di guerra. Se provassimo ad avere maggiore attenzione e rispetto per i poveri, forse capiremmo di più la nostra dignità di uomini e avremmo meno l’ardire di continuare a ferire l’umanità».