Autonomia differenziata, Pino Aprile: «È una riforma contro i poveri»

«L’Autonomia differenziata è il cavallo di Troia per spostare ulteriori risorse nazionali verso le regioni più ricche. Mentre prima andrebbero definiti, finanziati e realizzati i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ma sanno che servirebbero almeno cento miliardi, come stimò Francesco Boccia. Non è un caso se da più di vent’anni non riescono neanche a fissare quali dovrebbero essere questi “livelli essenziali”». Pino Aprile, giornalista e scrittore, è stato tra i primi a sottolineare i rischi dell’autonomia differenziata. Da anni è la “testa d’ariete” di un fronte meridionalista che si batte contro l’iniquità territoriale nella spesa pubblica. Una presa di coscienza collettiva che coincide con la pubblicazione di un suo saggio, “Terroni”, divenuto best seller in pochi mesi, che ha l’ambizione di riscrivere la storia dell’Unità d’Italia. Dal punto di vista del Sud: dei vinti, come direbbe Gianpaolo Pansa. Negli scorsi giorni è tornato in libreria con un aggiornamento del testo pubblicato nel 2010, dal titolo il “Nuovo Terroni”, edito da “Libreria Pienogiorno”, proprio mentre a Roma veniva limato il ddl Calderoli.

Pino Aprile, perché le fa così paura l’autonomia differenziata?

«Accresce le differenze tra i cittadini di uno stesso Stato. I diritti vengono commisurati alla ricchezza territoriale e non alla cittadinanza».

Verrebbe da dire che era così anche prima.

«L’autonomia differenziata è un ulteriore passo verso i veri obiettivi della Lega. L’obiettivo finale è regionalizzare le tasse statali. Oggi tutti pagano le stesse percentuali, in funzione delle fasce di reddito e non della residenza. Affermare che i lombardi pagano più tasse e quindi devono trattenere di più sul proprio territorio non solo è sbagliato ma anche controproducente per gli stessi lombardi».

I sostenitori della riforma affermano che si potrà varare l’Autonomia prima di attuare i Lep.

«Anzitutto dovrebbero definirli questi Lep. Si sono accorti che dovrebbero essere destinate molte più risorse al Mezzogiorno, e non sanno dove andare a prenderle. Il costo dei Lep svuoterebbe la cassa: l’ex ministro agli Affari Regionali Francesco Boccia calcolò in circa 100 miliardi le risorse necessarie. E comunque, le prestazioni devono essere uniformi, uguali per tutti. Non essenziali per i poveri e privilegiate per i ricchi. Poi ci sarebbero anche difficoltà operative».

Quali sarebbero?

«È un lavoro pazzesco: stiamo parlando di definire qual è il livello essenziale di una prestazione e cosa no per centinaia di voci di spesa pubblica. Pensiamo solo alla sanità: le cure che possono essere essenziali in montagna non sono le stesse a livello del mare, o in una città accanto a una fabbrica inquinante…».

Però la possibile richiesta di autonomia da parte di una Regione viene subordinata dal ddl Calderoli alla loro approvazione. Non è sufficiente?

«I Lep non solo vanno approvati ma anche finanziati. In sintesi, prima di parlare di qualsiasi ipotetica autonomia andrebbero colmati i divari. A Bolzano si spende per sostenere le famiglie in difficoltà economica 583 euro pro-capite. A Vibo Valentia 6. La malafede è evidente: facendo cento la ricchezza del Paese dovrebbero dire quanto verrà spostato a vantaggio delle aree del paese più deboli, mentre cercano di fare il contrario. E comunque non sarebbe una garanzia».

Perché?

«Prendiamo il progetto del ponte sullo Stretto. Il governo Berlusconi stanziò 3,5 miliardi di euro. Poi cadde e arrivò Prodi che dirottò le risorse al potenziamento della rete infrastrutturale dell’Isola, strade e porti. Poi tornò al governo Berlusconi: prese quelle risorse e le dirottò alla riduzione della tassa sugli immobili di lusso. Chiaro, no?».

Confida in un intervento di Mattarella?

«Il presidente ha già inviato segnali importanti e sta seguendo la situazione. C’è da dire, però, che anche qualora non firmasse la prima volta sarebbe costretto dalla Costituzione a farlo la seconda. Confido di più in una presa di coscienza popolare e istituzionale, purtroppo quasi assente a Sud, salvo la reazione di centinaia di sindaci del Recovery Sud. La stessa Confindustria, in un primo momento favorevole, adesso si è accorta che svuotare il Mezzogiorno vuol dire rinunciare alla più grande opportunità di sviluppo del Paese, e al mercato esclusivo delle merci del Nord, che è il Sud».

Perché ha deciso di rimettere mano a “Terroni”?

«Perché era incompleto. In tredici anni è cresciuta la consapevolezza di quello che è successo in un secolo e mezzo. Non un secolo e mezzo fa, come vorrebbero far credere, ma da 162 anni. Già Nitti, Salvemini, Gramsci e altri denunciarono la polarizzazione delle risorse nazionali a vantaggio delle regioni settentrionali. Oggi questa condizione è insostenibile: il Nord si allontana sempre più, in termini di ricchezza, dalle altre regioni europee e pretende di mantenere il proprio livello di vita a spese del resto del Paese. Oggi come allora. E poi c’è la Sardegna».

In che senso?

«Sull’Isola i piemontesi sperimentarono, per 140 anni, gli strumenti di colonizzazione poi applicati al Mezzogiorno dopo l’unità. Ci sono anche maggiori certezze riguardo ai numeri dei morti durante la conquista del Sud: 535 mila nel solo 1861. E sedicimila i militari borbonici fatti morire nei campi di concentramento e nelle caserme di punizione. L’ha scoperto il professore emerito in Metodo della Ricerca dell’Università di Padova, Giuseppe Gangemi, confutando i 4 (quattro!) ipotizzati dallo storico Alessandro Barbero. Sentivo la necessità di completare il lavoro iniziato».

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