Sono la frutta fresca, le insalate, il pane fresco e le verdure gli alimenti più sprecati dagli italiani. In tutto si tratta di 529,3 grammi pro-capite di cibo che non dovrebbe finire nella pattumiera. È quanto emerge dalla mappa dello spreco realizzata dall’Osservatorio Waste Watcher International (Wwi), creato nel 2013 dall’Università di Bologna e da Last Minute Market con l’obiettivo di monitorare ed investigare i comportamenti e le abitudini alimentari di consumatori e consumatrici. Il report registra anche grosse differenze territoriali: al Mezzogiorno, infatti, la quantità di cibo buttato è maggiore rispetto al Nord, in proporzione al numero di abitanti. Rispetto alla su citata media nazionale, infatti, da Roma in giù il dato è superiore del 18% mentre al Nord è inferiore del 17%. Numeri, dunque, che evidenziano differenze territoriali marcate su cui le politiche nazionali e regionali dovrebbero focalizzare l’attenzione. Se il calo dello spreco alimentare registrato nell’ultimo anno è sceso del 12% a causa dell’inflazione, solo un profondo lavoro culturale potrà rendere costante la decrescita.
Nulla toglie, infatti, che quando rallenterà la corsa dei prezzi anche le abitudini sbagliate possano riprendere il sopravvento. Ad oggi, però, stando a una indagine del Censis, il 58% dei consumatori ha cambiano le proprie abitudini iniziando a consumare i pasti avanzati i giorni precedenti.
Lo spreco settimanale medio, d’altronde, costa 4,9 euro a settimana a nucleo familiare per un totale di circa 6,5 miliardi e un costo complessivo di 10 miliardi che include gli sprechi di filiera produzione/distribuzione, oltre 3 miliardi e 293 milioni. Un fenomeno, però, che non riguarda solo l’Italia. Stando ai numeri diffusi dalla Fao, ogni anno nel mondo si sprecano in media quasi 74 chili di cibo a testa e quasi 1,4 miliardi di ettari di superficie agricola vengono usati per produrre cibo che poi non viene utilizzato. Il tutto mentre oltre 800 milioni di persone vivono nell’emergenza alimentare.
Tutti elementi che mostrano l’urgenza di un lavoro culturale che parta dalle scuole e che arrivi fino alla gestione della grande distribuzione, nonché ai nostri frigoriferi.