Acciaierie d’Italia, le aziende dell’indotto: «Stanchi di fare l’anello debole. Vogliamo risposte chiare»

Le imprese dell’indotto siderurgico si sono riunite in un comitato e ieri hanno elaborato un documento consegnato nelle mani dei parlamentari ionici, diretto al governo. Sottolineando l’esigenza di comunicare e agire come comunità locale, gli imprenditori che operano col siderurgico descrivono un quadro a tinte fosche, di un territorio «che sta piano piano affondando».

«Nell’ultimo decennio – scrivono gli imprenditori – abbiamo perso posti di lavoro, abbiamo perso benessere economico. La storia economica di questo territorio è sempre stata eterodiretta, calata dall’alto dalle grandi fabbriche da cui sono nati indotti industriali».

Secondo le imprese locali, «ora si tratta di scegliere tra un percorso virtuoso e inesorabile, attento e illuminato dalla chiarezza dell’obiettivo: il rilancio dello stabilimento siderurgico, oppure una rivoluzione, l’annullamento dell’esistente, la chiusura dello stabilimento, accompagnato dalla speranza che qualcos’altro nasca e che questo qualcos’altro sia proficuo per l’economia della comunità».

Una ipotesi, quest’ultima, ritenuta tuttavia impossibile da realizzare allo stato attuale. Interrogandosi sul destino della siderurgia tarantina, le imprese chiedono al governo di dare risposte chiare sulle intenzioni che riguardano il futuro di migliaia di famiglie.

«Vogliamo sapere quale sarà il destino di seimila lavoratori dell’indotto che soffrono da dieci anni sulla propria pelle e su quella dei propri familiari le alterne vicende di quello stabilimento», aggiungono.

«Noi oggi pretendiamo un impegno risolutivo per il rilancio dello stabilimento siderurgico, per la sua ambientalizzazione e per la salvaguardia dei posti di lavoro dei lavoratori diretti e dei lavoratori dell’indotto. Pretendiamo che si smetta di far ricadere sul solito anello debole della nostra società, che sono le aziende e i lavoratori, le problematiche derivanti da una pessima gestione della programmazione economica del territorio e delle sue grandi imprese. Nel 2015 abbiamo subìto le conseguenze della messa in amministrazione straordinaria dell’ex Ilva da parte dei commissari dello Stato con un conseguente ammanco nelle casse delle nostre aziende di 150 milioni di euro. Un provvedimento che secondo alcuni non era assolutamente necessario perché all’epoca lo stabilimento versava in condizioni economiche decisamente migliori delle attuali. Oggi, all’indomani di una pandemia mondiale e di una guerra che ha portato i costi energetici a livelli mai visti, subiamo i ritardi dei pagamenti fino a 180 giorni, le “black list”, l’annullamento improvviso di ordini e, da ultime, le sospensioni improvvise dei contratti oggi per domani ad un mese dal Natale. Queste sono condizioni proibitive per chi vuol fare impresa o addirittura per chi vorrebbe competere con l’estero, come ci viene chiesto dai vari governi che si succedono».

Ai parlamentari e ai rappresentanti sindacali, i titolari delle imprese dell’indotto hanno chiesto, «urlando», che si faccia il bene del territorio e si faccia presto perché non c’è più tempo. «E se le risposte non arriveranno nel giro di pochi giorni, allora rischieremo di andare, pur non volendo, verso situazioni incontrollabili dove non regna più la ragione e la programmazione ma la disperazione. Nessuno legga questa affermazione come una minaccia, ma la storia ci insegna che dove i percorsi virtuosi falliscono, irrompono le rivoluzioni».

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