Questa mattina presentazione ufficiale in Camera di commercio a Foggia del disciplinare per la Dop pomodoro di Puglia che è riferita alla varietà “lunga”, il tipico pomodoro San Marzano, utilizzato per pelati e salse. Un riconoscimento inseguito da anni, nonostante proprio la Capitanata sia la terra dell’oro rosso. Una coltivazione che dagli anni ’80 del secolo scorso ha occupato sempre più ettari, nonostante spesso non abbia riportato cadute positive sull’economia agricola. Anzi, sono molte le aziende agricole che non hanno resistito alle condizioni capestro delle industrie di trasformazione per la maggior parte campane. Una battaglia antica come ricorda l’ex parlamentare Colomba Mongiello, tra le più agguerrite nel tutelare il marchio del pomodoro pugliese: «Nasce da noi ma lo vogliono campano di origine. È inaccettabile».
E proprio per invertire questa tendenza si pensa che con la Dop le condizioni di vendita possano essere a prezzi migliori. Così come potrebbero essere favorite le oltre 200 aziende di trasformazione presenti sul territorio daunio, a partire dalla Princess, di proprietà inglese, che nella zona industriale di Foggia lo scorso anno ha trasformato 200mila tonnellate di pomodoro, dando lavoro a oltre 1100 persone tra operai stabili e stagionali.
Il disciplinare arriva dopo una lunga battaglia burocratica e campanilistica durata dieci anni, che ha impegnato produttori e organizzazioni agricole in un braccio di ferro con la Campania che è riuscita ad ottenere il riconoscimento di indicazione geografica protetta già dal 2017. Da lì la risposta dei pugliesi che hanno opposto i numeri di produzione. Infatti, oltre il 40 per cento di tutta la coltivazione italiana di pomodoro è negli appezzamenti della Puglia, come certifica l’Università di Foggia, con 15 milioni e mezzo di quintali di frutto da industria, coltivati su oltre 17mila ettari, a fronte dei due milioni e mezzo prodotti in Campania su quattromila ettari.
Non è però la rivalità con la regione limitrofa il vero problema per i coltivatori foggiani. Piuttosto, sottolinea Coldiretti, è l’impennata dei prezzi dovuti all’inflazione e ai rincari delle bollette energetiche ad «aver fatto lievitare i costi quest’anno di ben 3500 euro di media per ogni azienda produttrice», tutti caricati sulle spalle dei produttori, tanto che a scaffale, sottolineano i “berretti gialli”, «il prezzo di vendita non ripaga nemmeno la bottiglia vuota».