Indagine sull’ex Ilva, Marescotti: «Avevamo già denunciato. Ora cambiamo Taranto» – L’INTERVISTA

Alessandro Marescotti, docente «forzatamente in pensione», è fondatore dell’associazione ambientalista Peacelink che si batte da anni per la salvaguardia dell’ambiente e per un cambio di rotta a Taranto.

È stata una novità per i tarantini sapere di questi presunti imbrogli?

«La storia del sistema europeo dello scambio di emissioni noi l’avevamo denunciata da tantissimo tempo: a Taranto l’Ilva era un “climate monster”, un mostro climatico, perché quando lavorava a pieno ritmo, era un grande produttore di anidride carbonica: per non farla apparire come il primo produttore a livello europeo, avevano scorporato i dati degli impianti basati su altiforni dalle centrali termoelettriche. Sommando le due cet con i quattro altiforni e le dieci cokerie, si sarebbe ottenuto un valore altissimo».

Perchè esiste ancora l’ex Ilva?

«Posso dare almeno due risposte. La prima è che la politica è abituata a ragionare sull’immediato: sul mese prossimo, sull’anno prossimo, sulle prossime elezioni. Quando si tratta di compiere di compiere cambiamenti strategici come ad esempio quello di sostituire il motore dell’economia tarantina con un intervento strutturale, lì si cerca sempre di rimandare e demandare la patata bollente a qualcun altro, e magari sfruttare tutti i disagi che il governo successivo subirà per poter acquisire consenso. In altre parti di Europa, quando sono state chiuse grandi acciaierie, tutti i partiti hanno cooperato per risolvere il problema. Noi siamo bravissimi a “unirci” quando si tratta di fare delle scelte di politica estera non sempre azzeccate, e invece ci dividiamo quando si tratta di fare il bene della comunità».

E la seconda?

«C’è anche una seconda ragione che riguarda i lavoratori e in generale i cittadini: il cambiamento non può essere improvvisato. Lo si è visto con i 5 stelle, che hanno fatto molta demagogia ma poi non si sono presi la responsabilità. Allora mettiamoci nei panni di un operaio dell’Ilva che, tra fare un’operazione chirurgica e cambiare il cuore e continuare a vivacchiare con delle medicine, preferisce questa seconda cosa. A Taranto occorreva fare un intervento chirurgico molto profondo, cambiare appunto il cuore dell’economia tarantina, ma ci voleva un bravo chirurgo, che non c’è. Io capisco i tanti lavoratori dell’Ilva che, tra un progetto costruito sulle nuvole di riconversione e un tentativo di aggiustare l’esistente, hanno preferito che si tirasse a campare».

C’è una soluzione?

«A Taranto si può fare quello che è stato fatto in altre parti d’Europa, copiare, lavorare sul medio e lungo termine e, da una sola fabbrica che dà 10.000 posti di lavoro, arrivare a una rete di attività economiche diverse e diversificate, capaci di produrre delle esternalità positive come nella teoria di Arthur Cecile Pigou, creare quell’indotto che a Taranto c’è stato ma in forma malata».

Da dove dovrebbe partire questo bravo chirurgo?

«Dovrebbe agire per primo sul sistema formativo, cioè deve partire dalla scuola, dove si devono creare i profili professionali necessari, coerenti con la domanda che dovrebbe derivare dal cambiamento economico. Così i protagonisti della soluzione, non saranno dei tecnici che vengono dal nord Italia ma i nostri ragazzi. Basta seguire l’esempio di Pittsburgh negli Stati Uniti, che si è completamente reinventata».

Quindi i giovani sono consapevoli?

«Faccio presente che fino a poco più di 10 anni fa si mandavano i ragazzi delle scuole superiori a fare l’alternanza scuola lavoro all’Ilva, vagheggiando futuri posti di lavoro: io sono sempre stato chiaro con loro, l’Ilva non avrebbe mai potuto assumerli, anzi, avrebbe licenziato. I figli dei lavoratori dell’indotto sono stati i primi a capirlo. Oggi i ragazzi non hanno molta fiducia nel cambiamento, hanno pochissima fiducia nei cosiddetti decisori politici. Ho fatto dei sondaggi: un ragazzo su due vuole andare via da Taranto. Quello che non vuole andare via è perché non c’ha i soldi».

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