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Resilienza? Va bene, ma come?

Resilienza. Questa parola è un tormentone ripetuto nei comizi, nei documenti di programmazione, nei vertici locali e internazionali. Molto meno il concetto è entrato nelle culture operative, nelle imprese, nei criteri con cui si gestiscono le risorse, nel funzionamento ordinario del sistema pubblico. Rischia di diventare una vuota enunciazione. Molto meno, infatti, si ragiona sul come dare senso a questa parola presa in prestito dalla scienza dei materiali e della psicologia.

Forse si è finalmente capito che lo Sviluppo, per essere durevole, richiede l’armonica combinazione di tecnica e creatività umana; di fattori materiali e immateriali. Forse è una sfida alla ricerca di nuovi orizzonti di sviluppo in un’epoca geologica definita “Antropocene” … in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana. Questo spunto di ricerca è appassionante. Per non rischiare l’astrazione, è forse utile richiamare gli esiti di una sperimentazione fatta nei nostri territori negli anni ’90, quando gli effetti della crisi epocale erano già evidenti, anche se non dirompenti come oggi. Mi riferisco alla stagione dei Patti Territoriali, nati per promuovere sviluppo sostenibile attraverso processi partecipativi, ma dispersi nelle nebbie di un sistema pubblico incapace di innovarsi. Dentro quella stagione l’esperienza più misurabile nel Meridione fu quella dei dieci Patti Territoriali per l’Occupazione (Pto)* accompagnati dalla Commissione Europea. Uno di questi ha interessato l’area del Nord Barese Ofantino.

Su quelle esperienze si sono formate opinioni diverse, ma credo che a proposito di Resilienza, nessuno possa negare che quella stagione abbia delineato una strategia su come produrre sviluppo sostenibile, inclusivo e durevole nel tempo. Provo a richiamarla in estrema sintesi, sperando di stimolare ulteriori e più accurati approfondimenti.

La crisi sistemica si è manifestata a cavallo di secolo e ha messo in discussione tutte le “certezze” del ‘900. Per averne riprova, basti pensare ai principali mutamenti intervenuti nel mondo, nelle imprese, nell’economia, nella società: assetti geoeconomici; emergenze ambientali e climatiche; crisi degli stati-nazione; crisi del fordismo; finanziarizzazione dell’economia; crisi delle rappresentanze politiche e sociali; … e, nel Meridione, la chiusura traumatica della Casmez.

Basta mettere in relazione tutti questi eventi per avere un’idea più compiuta del carattere “sistemico” della crisi e capire meglio gli effetti che essa riverbera sui territori e nelle comunità.

In questo scenario, l’intuizione fu di promuovere coesione sociale per lo sviluppo a partire dai territori e dal capitale umano costituito dalle classi dirigenti locali (la “Società di mezzo” – Cnel ‘90).

I Patti Territoriali furono uno strumento e una strategia operativa per tradurre in pratica l’indirizzo dato da sempre dalla UE per le politiche comunitarie. Ma queste esperienze -nonostante alcune di esse siano state validate e premiate- sono rimaste negli archivi delle buone prassi.

C’è da chiedersi: perché? Sto ancora ricercando le spiegazioni, ma alcune cose sembrano evidenti.

Prevalgono ancora approcci culturali, politiche, apparati e prassi del ‘900. Basti guardare all’architettura del Pnrr che ricalca una impostazione settoriale del Recovery Fund, mostrando scarsa capacità di indurre azioni integrate, più adatte a produrre risposte sistemiche. È poco considerato l’insegnamento di Einstain (“non si possono risolvere i problemi con i medesimi pensieri che li hanno creati”).

Nel frattempo le speranze di resilienza si allontanano, perché i giovani cervelli italiani fuggono verso contesti politici, amministrativi e sociali più accoglienti, dove possono porsi più liberamente qualche domanda sugli effetti economici, sociali, ambientali causati dall’uso scriteriato delle risorse della Terra e del suo capitale umano.

Osvaldo Cammarota è operatore di coesione e sviluppo territoriale e direttore della Banca delle risorse immateriali

*Il Pom Sviluppo Locale Pto – Ob. 1 Italia è stato realizzato con 10 Sottoprogrammi, ha coinvolto 363 Comuni; 2,4 milioni di abitanti; ha attivato 1,3 miliardi di euro di investimenti; ha realizzato 4.400 progetti e 10.200 nuovi posti di lavoro. I risultati economici, finanziari, sociali e gestionali sono raccolti in la Recuenta dei Pto, il rapporto conclusivo redatto dal Dps e dalla rete dei Pto (2010 – L’ArteGrafica – Roma).

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