Parliamo di “carni coltivate”. Lo scorso 1 dicembre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato un disegno di legge che vieta la produzione, il commercio e l’importazione, in Italia, di carne e altri alimenti creati in laboratorio. «Un impegno del Paese per la difesa della dieta mediterranea», dice Coldiretti. Il tema è da tempo discusso da politica e scienza, perché è necessario rendere sostenibili i sistemi di allevamento degli animali che utilizzano risorse naturali e «emettono degli output che possono essere inquinanti o dannosi per l’ambiente».
Un’altra priorità è quella di fornire alimenti basati su proteine di origine animale, per la popolazione mondiale in un sistema di sicurezza alimentare «intesa anche come alimenti a disposizione di tutti. Nel globo terrestre ci sono popolazioni dove il cibo non basta» a soddisfare il fabbisogno alimentare. La coltivazione di cellule animali è una innovazione già in opera in alcuni paesi del mondo, ma non trova tutti e tutte d’accordo.
«In paesi dove è stata consentita la vendita, ad esempio in Israele, prima del consumo viene chiesta la firma – spiega Coldiretti – per una liberatoria su responsabilità e conseguenze di salute. La battaglia contro il cibo sintetico o artificiale si è estesa a livello internazionale e coinvolge 250 mila agricoltori e famiglie in diversi continenti. Dagli Usa all’Australia, dal Giappone al Ghana, fino a numerosi Paesi dell’Europa. Pesano le preoccupazioni anche sul piano ambientale. Inoltre il potenziale di riscaldamento globale della carne coltivata definito in equivalenti di anidride carbonica emessi per ogni chilogrammo prodotto è da 4 a 25 volte superiore a quello della carne bovina tradizionale».
Il processo di produzione della “carne coltivata” è avviato grazie ad una cellula animale in grado di riprodursi in una condizione “di laboratorio” che «simula il processo fisiologico a carico dei muscoli degli animali. Si realizzano delle condizioni ambientali in un sistema chiuso e super controllato e senza rischi microbiologici, in cui sono forniti nutrienti». In queste condizioni le cellule si moltiplicano e riproducono il tessuto dell’animale fino ad un prodotto finito, il macinato di “carne coltivata”.
«Per produrre qualcosa che sia simile a un muscolo, viene creata una coltura nella quale lo scheletro su cui vengono fatte crescere le cellule, fatto di collagene, che generano lo sviluppo delle fibre muscolari in questa struttura. Inoltre, per dare una consistenza simile alla carne, queste strutture vengono sottoposte a dei processi di estensione e contrazione». Così il professor Pasquale De Palo, ordinario di Zootecnia alla facoltà di Veterinaria di Bari
Gli aspetti critici
«Il primo – spiega De Palo – è legato al fatto che il sistema non riesce a fare a meno di utilizzare o biopsie di animali o embrioni ottenuti da animali. Il secondo è che non si riesce ancora a superare il problema di utilizzare il siero fetale bovino come midium di coltura. Il siero fetale bovino non ha anticorpi ma una serie di fattori di crescita. L’alternativa, che renderebbe meno etica la carne da laboratorio, genera una serie di problemi, perché bisognerebbe ricorrere a una serie di composti chimici che renderebbe più artificiale il tutto generando una serie di dubbi sulla sicurezza alimentare. Il terzo aspetto critico è legato al fatto che al momento la tecnologia consente una produzione in laboratorio di piccole quantità».
Ma il processo non funziona se si passa dal laboratorio all’ industria. «Più grande è la massa del muscolo, più difficilmente il liquido di coltura riesce a nutrire le cellule al cuore di questa massa. Quindi, di fatto, il sistema non è ancora pronto per una produzione industriale».
La stessa Coldiretti già dallo scorso 10 novembre 2022 inizia una battaglia contro il cibo artificiale e raccoglie oltre 2 milioni di firme a sostegno della legge con 2mila comuni a favore del divieto in Italia. Il 28 marzo 2023 il Consiglio dei Ministri presenta il disegno di legge che vieta il commercio, la produzione e l’importazione. Sostenuto e approvato anche dalla Conferenza delle Regioni il 19 aprile 2023 prima dell’ingresso in Senato il 19 luglio, passa in Aula con 93 voti favorevoli, 28 contrari e 33 astenuti.
Favorevoli o no a questa innovazione alimentare?
Lo abbiamo chiesto a cittadini, studenti, studentesse e docenti dell’Università di Bari. Diversi gli aspetti considerati. Al dipartimento di Scienze del suolo della pianta e degli alimenti con la professoressa Angela Gabriella D’Alessandro, ordinario di zootecnia speciale, e la professoressa Maria De Angelis, ricercatrice e biotecnologa alimentare, direttrice del dipartimento.
Carne coltivata, ma è corretto chiamarla “carne”?
«Il termine ‘carne’ – spiega la professoressa Angela Gabriella D’Alessandro – si riferisce alle parti commestibili, atte al consumo umano, provenienti dagli animali. Quindi, fa riferimento al prodotto ottenuto dai processi fisiologici degli animali, che riguardano i muscoli, che, in termini commerciali, prendono la denominazione di carne. La carne coltivata mette in gioco il processo di produzione dei muscoli. Si parte da cellule staminali in grado di moltiplicarsi e differenziarsi in cellule muscolari, in bioreattori. Quindi, a queste cellule bisogna fornire un insieme di nutrienti con l’aggiunta di fattori di crescita e di ormoni, per mimare quello che avviene in condizioni naturali, e di antibiotici. Qui nasce ovviamente un motivo di perplessità. Se dal punto di vista allevatoriale le sostanze promotrici della crescita e gli antibiotici vengono controllati e limitati, qual è l’impatto dell’impiego di queste sostanze in condizioni artificiali e quindi di laboratorio? Io penso che questo è un aspetto del sistema di produzione della carne coltivata, che deve essere divulgato ai consumatori per dare trasparenza e consapevolezza nelle scelte».
La produzione di “carne coltivata” è una possibile soluzione alle problematiche degli allevamenti e al fabbisogno alimentare mondiale?
«Il mondo della ricerca così come quello della tecnologia sta cercando di dare delle risposte alle problematiche ambientali in termini di riduzione dei gas serra e di risparmio delle risorse naturali. C’è una grande attenzione nei riguardi di queste problematiche strettamente connesse con l’allevamento degli animali, che riguarda lo sviluppo di sistemi di produzione più sostenibili. Quindi, la produzione di carne coltivata non è l’unica via perseguibile. Ci sono altre vie già in atto. Invece, sulla possibilità di fornire alimenti di elevata valenza nutrizionale alla popolazione globale, bisogna fare molta attenzione perché è impensabile, a mio avviso, sovvertire l’impianto del sistema di produzione degli alimenti di origine animale – la carne così come il latte – nelle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, dove gli animali hanno diversi ruoli. Una finalità dell’allevamento, sicuramente, è quella di fornire l’alimento, ma riveste anche un valore sociale. Molto spesso, le attività di allevamento vengono svolte dalle donne; ciò significa occupazione e reddito per le donne. Gli animali danno un contributo anche alla fertilità del terreno attraverso una concimazione organica e sono legate all’economia del territorio».
Il commercio di questi alimenti potrebbe mettere a rischio le economie locali dei sistemi di allevamento anche nei paesi sviluppati. Ma è possibile una coesistenza?
«Sì. Ovviamente la possibilità della coesistenza, diciamo che è già in atto. Si ha notizia dell’utilizzo di questo tipo di ‘alimento artificiale’, in altri Stati. Però, a mio avviso, alla base ci deve essere una corretta
informazione, rivolta a tutti, del sistema di produzione, e molta trasparenza. Partiamo dalle nostre abitudini, tradizioni e visioni di quello che è l’alimento ‘carne’. Conosciamo un determinato prodotto, che è quello convenzionale, ma non conosciamo l’altro, ottenuto da processi di laboratorio».
“Carne coltivata” o no, cosa bisogna garantire ai consumatori?
«I consumatori di oggi, e questo vale per qualsiasi alimento, chiedono al mondo produttivo alimenti sani. L’attuale indirizzo di ricerca porta a un target individuabile e un obiettivo, che è quello di avere sistemi di produzione più ecocompatibili e rispondenti alle necessità del consumatore moderno che chiede un alimento ottenuto da processi più naturali possibili, senza antibiotici e senza la presenza di fattori di crescita. Dal punto di vista personale, sono perfettamente in linea con questo tipo di impostazione, anche perché la mia attività di ricerca, in ambito zootecnico, è rivolta alla risoluzione delle problematiche che si collocano nel contesto più ampio della sostenibilità ambientale».
Come procede la ricerca?
«Si stanno facendo passi da gigante – conclude la professoressa Angela Gabriella D’Alessandro – per individuare strategie mirate in grado di mitigare le problematiche ambientali. La ricerca dei sistemi di produzione della carne coltivata è limitata a pochissimi centri a livello nazionale. In altri contesti, soprattutto legati alle multinazionali, la ricerca è molto più avanti. La priorità, in termini di ricerca, è rivolta all’individuazione di sistemi basati sulla conoscenza e sull’adozione di tecnologie ad hoc per mitigare gli impatti negativi dell’allevamento animale. Si cercano soluzioni per limitare l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e l’esigenza di ridurre le emissioni dei gas ad effetto serra».
Professoressa Maria De Angelis cosa ne pensa della ricerca sulla “carne coltivata”?
«Certamente è una grande innovazione – spiega – produrre carne in laboratorio. Ma c’è ancora un po’ di ricerca da fare proprio per capire quali possono essere gli effetti di questa carne anche sulla salute delle persone. È una cosa di per sé positiva che va studiata, va vista e solo dopo quando abbiamo tutte le nozioni possiamo decidere se può avere un sua praticità e andare sul mercato o meno. La ricerca va avanti e può andare avanti anche perché senza i dati della ricerca tutto si ferma. Ora non è possibile ma se ci fermiamo come ricerca non sarà possibile neanche fra 20 anni. Negli Stati Uniti ci sono dei posti dove la ricerca è più avanti. In Italia siamo presi da altri temi super urgenti a cui dobbiamo dare delle risposte, delle risposte anche al mondo delle imprese. La carne coltivata per l’università di Bari non ha una priorità però c’è interesse».
Ci sono rischi legati alla coltivazione in laboratorio?
«Posso dire – continua – che la coltivazione della carne in laboratorio di fatto non è esposta a rischi microbiologici, perché ci sono dei fermentatori per cui la moltiplicazione delle cellule e la loro differenziazione avviene in condizioni di sterilità. Chiaramente mi aspetto che la qualità sensoriale sia molto diversa rispetto a quella che la carne a cui noi siamo abituati. Poi non abbiamo dati su quale può essere effettivamente la qualità nutrizionale e funzionale eventuale di questa carne rispetto a quella che utilizziamo normalmente. C’è bisogno di un po’ di tempo anche per studiare bene il prodotto».
Questa innovazione potrebbe migliorare le condizioni di sicurezza alimentare di tutti?
«In Europa, in generale nel mondo, parliamo sempre di sicurezza alimentare – conclude la professoressa Maria De Angelis – intesa anche come alimenti a disposizione di tutti. In un contesto in cui il cambiamento climatico è in atto e le popolazioni diminuiscono proprio perché ci sarà meno acqua e meno superfici, allora forse questa può essere un’innovazione utile a far sì che la carne sia a disposizione di tutti ad un prezzo anche buono per la maggior parte della popolazione. Quella popolazione che adesso non ha accesso e in futuro avrà ancora meno la possibilità di accedere a questo prodotto».
A Scienze e tecnologie alimentari di Agraria le studentesse Raffaella Dentico, Rosalinda Savino e lo studente Simone Perrone
«Pienamente a favore della carne coltivata – spiega Rosalinda Savino – se l’obiettivo è ridurre il consumo di carne e tornare a quella che era la dieta mediterranea. Mangiare carne rossa, una sola volta al mese o ogni 15 giorni per abbattere le malattie tutte legate a quel tipo di alimentazione. Dietro c’è tutto un processo scientifico che porterebbe al miglioramento. Non ci dimentichiamo che la scienza è sempre a favore del mantenimento della biodiversità della specie. Se non si hanno conoscenze a riguardo è solo terrorismo psicologico. Chi l’ha provata ha detto che è eccezionale».
«È un progresso tecnologico – continua Raffaella Dentico – quindi bisogna vederlo anche come un qualcosa di positivo e di avanguardia. Ho letto quello che dice la Coldiretti e secondo me non dovrebbero preoccuparsi perché fondamentalmente se ci sono allevatori o produttori che producono carne di qualità, questo non può condannare quello che potrebbe essere un prodotto tutto italiano solo perché c’è una carne coltivata o comunque un prodotto alternativo a quel consumo. Spero che questo porti più che altro alla diminuzione degli allevamenti intensivi e del consumo, alle volte eccessivo, della carne in generale che invece deve essere un prodotto consumato nei minimi termini, anche come piacere. Questo non significa che un prodotto come la carne coltivata possa andare poi a bloccare un mercato che deve essere comunque un’alternativa alternativa a chi non gradisce, non vuole consumare più prodotti direttamente di origine animale».
«Penso che – conclude Simone Perrone – sia importante l’opinione dell’ Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare per capire se la carne coltivata è effettivamente un alimento salutare o no. Sono completamente a favore del prodotto di laboratorio e del libero mercato che significa poter mangiare un alimento senza gravare più di tanto sull’ecosistema. Io la mangerei molto volentieri, anzi, sono molto curioso effettivamente di come possa essere e di quello che effettivamente sarà il cibo del futuro anche con l’alimentazione proteica di farina di insetti, così come tutti i novel food».