«La Lega tiene sotto ricatto Giorgia Meloni sull’autonomia in una battaglia che la presidente del Consiglio sta perdendo. Molti parlamentari di Fratelli d’Italia sono contrari a questo regionalismo che spacca in due il Paese ma non possono dirlo. È una riforma vergognosa contro il Mezzogiorno. È nato un intergruppo in Parlamento in difesa del Sud al quale hanno aderito già in quarantasette di diversi schieramenti». Pino Aprile, giornalista, scrittore e meridionalista, è stato tra i primi a scagliarsi contro il progetto di Autonomia differenziata che da anni porta avanti la Lega e che ora, da forza di governo, è a un passo dal realizzare. Il tentativo da parte del ministro Roberto Calderoli di slegare l’ok alla riforma dal finanziamento dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ha fatto saltare sulla sedia anche il governatore della Calabria Roberto Occhiuto che, insieme ai colleghi di centrodestra, votò a favore del testo di Calderoli in Conferenza Stato-Regioni (tra i meridionali i contrari furono solo Vincenzo De Luca e Michele Emiliano).
Pino Aprile, è un segnale importante quello che arriva dal presidente della Calabria?
«No perché è troppo tardi, non è credibile. Doveva comprendere le reali intenzioni della Lega prima di votare a favore. Ora c’è il rischio che non serva più e lo sa anche lui».
Perché non l’ha fatto?
«Per obbedienza di partito e opportunismo. A prescindere dalle disparità che verrebbero “istituzionalizzate” tra Nord e Sud, il ruolo dei presidenti di regione ne uscirebbe rafforzato perché avrebbero più poteri da gestire. I presidenti meridionali, tranne quelli di Campania e Puglia, sono stati complici di questa riforma che non ho remore nel definire delinquenziale».
L’ha convinta il lavoro svolto dalla commissione sui Lep presieduta da Sabino Cassese?
«No, avendo sottovalutato il contributo di chi ha maggiormente studiato la materia, segnalandone gli aspetti negativi che mettono in discussione l’equilibrio costituzionale e la stessa unità del Paese. Perché in questi organismi non c’è la Svimez, che più e meglio di tutti ha approfondito numeri alla mano il tema della disparità che l’autonomia differenziata incrementerebbe? Perché non c’è il professore Gianfranco Viesti, autore di studi e libri importanti sull’argomento e promotore dell’appello “no alla secessione dei ricchi”? Quelli creati da Calderoli sono organismi per legittimare la riforma e la prova che non si vuole che il Mezzogiorno sia rappresentato».
Quanto è determinante l’approvazione dell’autonomia differenziata per la sopravvivenza del governo?
«Nel 2018 l’allora presidente del Consiglio Gentiloni strinse un patto con la regione Veneto per la realizzazione del regionalismo. Non erano a conoscenza del testo di quel patto neanche i presidenti di Camera e Senato. Grazie alla divulgazione che abbiamo fatto furono costretti a rinunciare al progetto. Saltò il Consiglio dei ministri che doveva approvarlo. Il governo era in piedi grazie ai voti di sei senatori e in dieci, venuti a conoscenza dei termini folli di quel patto, chiaramente fecero sapere che non avrebbero sostenuto la riforma».
Il governo Meloni oggi ha ben altri numeri.
«È vero. Però recentemente è nato un intergruppo trasversale agli schieramenti per difendere gli interessi del Mezzogiorno con particolare attenzione alle aree interne e alle piccole isole, guidato dall’on. Alessandro Caramiello e di cui sono presidente onorario. Hanno aderito già quarantasei parlamentari e possono contare sul sostegno di Assi, l’associazione a cui aderiscono più di cento sindaci meridionali. La speranza è che facciano sentire il loro peso mentre, nella maggioranza, Fratelli d’Italia decida una volta per tutte se sottrarsi al ricatto della Lega. È vero che l’autonomia differenziata è nel patto di maggioranza, ma non può passare senza l’approvazione e il finanziamento dei Lep, i servizi uguali per tutti».
L’accordo sulle riforme istituzionali da approvare insieme: premierato e autonomia?
«Esatto con un particolare però: che il regionalismo potrebbe essere approvato molto prima. Invece che alla Camera, la riforma sul premierato è stata incardinata al Senato, come l’autonomia differenziata che, però, è già molto avanti. Un disallineamento che mette la Lega nella condizione di poter staccare la spina al governo una volta portato a casa il proprio risultato, magari prima delle elezioni europee per portarlo all’incasso nelle urne al Nord. E Giorgia Meloni lo sa bene».
Dentro Fratelli d’Italia c’è un dibattito aperto su questo?
«Molti esponenti non condividono il progetto di Calderoli. Non possono dirlo pubblicamente ma in privato non nascondono il mal di pancia. La stessa presidente del Consiglio durante la scorsa legislatura, quando il Pd si accordò con le regioni a guida leghista, parlò di una legge che avrebbe spaccato il Paese. Resta che il partito guidato da Salvini la tiene sotto scacco ed è un ricatto dal quale non è facile divincolarsi».
L’hanno delusa i parlamentari meridionali?
«Non dovrebbero essere complici di una riforma che va contro il principio di equità e, di conseguenza, contro la propria terra».
Due mesi fa è uscito in libreria il suo nuovo libro “La brigante bambina”, edito da Pienogiorno. Perché dopo tanti saggi di successo ha sentito la necessità di scrivere un romanzo?
«Perché la narrazione è più agevole e tocca la corda delle emozioni, favorendo il ricordo. Sono raccontate tante storie realmente accadute legate al brigantaggio e alla resistenza all’occupazione sabauda. Fatti che meritano di essere conosciuti e che fanno parte della nostra storia».
C’è anche l’amore.
«Sì, il libro racconta il sentimento tra una ragazza di sedici anni e un maestro. Insieme decidono di combattere gli invasori. La vita li fa conoscere nei boschi e nel loro percorso incontreranno i più importanti capi di quella guerra civile che si è cercato di nascondere e diffamare con il termine brigantaggio».
Il Paese riuscirà mai a rimarginare quella ferita?
«Solo se piangerà insieme quelle vittime, accettando la storia com’è, e se si smetterà di pretendere la subalternità del Mezzogiorno».