Da Mola di Bari alla NASA per scoprire l’universo

Sara Susca, classe 1976, di Mola di Bari. Fin da bambina sogna di diventare ingegnere. «In generale mi piacevano tantissimo matematica, fisica, e astronomia – dice –. Leggevo molto. Leggevo interi volumi dell’enciclopedia che avevamo a casa. Non c’erano ancora internet e Wikipedia!» Fin qui tutto piuttosto ordinario: una donna pugliese amante dei numeri. Manca, però, un piccolo dettaglio per completare il quadro. Professione: ingegnere della NASA. Dunque, riavvolgiamo il nastro e cominciamo dall’inizio.

Qual è stato il suo percorso di studi?
«Ho frequentato il Politecnico di Bari per due anni, ho iniziato con ingegneria elettrica. Successivamente, mi sono trasferita al politecnico di Milano dove ho scelto ingegneria aerospaziale. All’epoca il corso di laurea durava cinque anni, più la tesi. Ho frequentato un anno presso l’Università del Colorado a Boulder, come studente di scambio, fino ad arrivare al dottorato di ingegneria elettrica all’Università della California a Santa Barbara».
Cosa l’ha portata fino a raggiungere la NASA?
«Fortuna, determinazione, e volontà di sacrificio. Gli americani hanno un proverbio che uso spesso: “it takes a village to raise a child” (letteralmente: per far crescere un bambino occorre un villaggio intero n.d.r.). Se prendi la prima parte del proverbio, “it takes a village”, puoi applicarlo a tanti momenti di vita ordinaria. Tante cose devono andare per il verso giusto, per raggiungerne altre “lontane”. Nel mio caso, anche se riuscii ad avere una borsa di studio per il dottorato a Santa Barbara, con un professore che lavorava al Jet Propulsion Laboratory in estate, quando non doveva insegnare, non ebbi opportunità di fare un tirocinio al JPL, ma per la compagnia Honeywell che aveva un centro di ricerca a Minneapolis. Finiti gli studi mi assunsero e continuai a fare ricerca per loro. Nel frattempo, le mie pubblicazioni furono notate da alcuni ricercatori del JPL, che lavoravano su argomenti simili e così ebbi l’opportunità di fare un colloquio e poi fui assunta. Ben undici anni fa».
Cosa è di preciso il JPL?
«È stato fondato nel 1930. Tutto ebbe inizio da quattro studenti di Von Karman, professore al Caltech e dai loro esperimenti sui razzi. Il JPL è ora un centro di ricerca e tecnologia della NASA, che è amministrato proprio dal Caltech, una delle migliori università al mondo. Sono circondata da geni, per farla semplice! Il motto del JPL è “dare mighty things”, che significa “osa cose importanti” e ha una cultura che promuove la curiosità. Tutto questo riflette molto della mia personalità. Ci occupiamo di tante cose, ma l’esplorazione robotica planetaria è la nostra specialità, non ci occupiamo di missioni che coinvolgono astronauti».
Qual è stato il primo progetto per cui ha lavorato al JPL e quello a cui è più legata?
«Il primo Progetto si chiamava LS3 – Legged Squad Support System (Big Dog, cioè un robot quadrupede n.d.r.) della Boston Dynamics per l’agenzia del governo americano DARPA. Tra gli altri progetti ho investito quasi cinque anni nella missione Europa Clipper. Poi, finalmente ho avuto l’opportunità di seguire una missione dall’inizio alla fine e mi ci sono buttata a capofitto. Quindi, sono più legata al progetto attuale, cioè SPHEREx, perché potrò seguirlo fino al lancio, se niente cambia, che non avverrà prima del mese di giugno del 2024. SPHEREx è un telescopio che creerà una nuova mappa del nostro universo nelle frequenze dell’infrarosso e ciò aiuterà a capire come si è espanso l’universo durante i primi instanti dopo il Big Bang (questa descrizione fa letteralmente venire la pelle d’oca! N.d.r.)».
Tornasse indietro, rifarebbe le stesse scelte?
«Vorrei aver studiato più fisica. Non ho così tanto tempo ora per approfondirla e studiarla, ma comunque non l’ho mai abbandonata. Chissà che un giorno non decida di ritornare all’università per un dottorato in fisica».
Obiettivi futuri?
«Direttore del laboratorio, si può dire?! No, scherzi a parte, il laboratorio è molto importante per me. Per ora sono concentrata nel mio ruolo, poi si vedrà».
Noi “comuni mortali” non potremmo trascendere a tal punto da comprendere in che modo sia possibile riuscire a studiare e scoprire avvenimenti così distanti dai noi, fisicamente e temporalmente, come nel caso del progetto SPHEREx. E questo non è un minus. In nostro soccorso, ecco che giungono persone come la scienziata Sara Susca, che grazie al loro impegno e alla loro curiosità ci permettono di continuare a sognare, come solo i bambini sanno fare.

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