Che cosa prova la rielezione di Mattarella? Il flop di Salvini, il fallimento del centrodestra, o anche la fine del bipolarismo, cioè dell’idea che la democrazia italiana funzioni con un’offerta politica divisa in due visioni alternative? Per sciogliere questo rebus, provate a rispondere alla seguente domanda: quale candidato riferibile alla cultura del centrodestra avrebbe potuto trovare la convergenza del centrosinistra? Se avete un nome credibile, cessate di leggere quest’articolo, poiché vorrebbe dire che la tesi qui sostenuta non sta in piedi. Vorrebbe dire che oltre il perimetro dei vertici istituzionali e dei tecnici bruciati, oltre i riferimenti di Casellati, Nordio, Moratti, Pera, Frattini – e mettiamoci pure Cassese – c’era un’area culturalmente agibile, ma non esplorata dai leader del centrodestra. Dove sarebbe stato ancora possibile trovare una sintesi in grado di tenere in equilibrio la democrazia. Se invece, come noi, quel nome non lo avete trovato, dovrete convenire che il bipolarismo italiano non è lo spazio condiviso della dialettica e del conflitto tra due idee di Stato e di società alternative, ma è piuttosto il simbolo dell’impraticabilità politica, che ha nel disconoscimento dell’avversario il suo unico punto fermo. Riconoscere questa evidenza non significa rilegittimare Salvini, la cui inadeguatezza a dialogare, a trattare, e perfino a comprendere i processi, è parsa insormontabile. Ma significa riconoscere che la divisività tra gli schieramenti, e all’interno degli stessi partiti, ha assunto una radicalità che conduce alla paralisi ogni qual volta il sistema è chiamato ad assumere decisioni riguardanti il suo assetto. E allora vale la pena di interrogarsi su ciò che è accaduto e su che cosa può servire per uscire dall’impasse.
La prima considerazione riguarda l’inconsistenza ideologica del bipolarismo. Non solo perché la crisi della globalizzazione e l’emergenza sanitaria mondiale hanno messo definitivamente in discussione il dualismo tra Stato e mercato, spingendo tanto la sinistra quanto la destra verso la signoria delle politiche pubbliche. Ma perché nelle classi dirigenti della politica italiana non esistono più coordinate ideologiche in grado di orientare le scelte e limitarne il campo. L’esempio più classico è un dettaglio assai trascurato dalle cronache quirinalizie: l’indicazione di Carlo Nordio come candidato di Giorgia Meloni, la leader che pure esce meglio dalla debacle del centrodestra, e a cui è riconosciuta la maggior coerenza politica nel suo schieramento. Senonché il magistrato scelto per il Colle è un intellettuale di cultura liberale e garantista, l’opposto della logica securitaria, e marcatamente giustizialista, di Fratelli d’Italia. Che rivendica il proposito di gettare le chiavi delle celle. Non a caso, quando la Consulta dichiara incostituzionale l’ergastolo ostativo, poiché in contrasto con il principio di rieducazione della pena, il partito di Giorgia Meloni propone di cambiare la Costituzione, pur di difendere la bandierina del fine-pena-mai. Che ci azzecca Nordio con la forca differita del carcere a vita? Questo caso dimostra che l’ideologia non è più in rapporto con le divisioni tra i due poli, e interne ai singoli partiti, dettate invece da una lotta per la leadership attorno a cui si disegna una geografia di interessi corporativi. Lo svuotamento ideologico non depotenzia la contrapposizione, anzi il conflitto tra le diverse appartenenze supplisce alla crisi di identità delle forze politiche. Se una pregiudiziale ideale ancora può riconoscersi, questa riguarda le forme della politica. Il bipolarismo che resta è un dualismo estetico tra il linguaggio e lo stile della stagione, appena conclusa, dei populisti a Palazzo, e il linguaggio e lo stile ancorati alle liturgie della democrazia rappresentativa. Se ne è avuta prova nel repentino ascendere e declinare della candidatura di Elisabetta Belloni. Dopo il dialogo tra sordi in cui sono andati bruciandosi vertici istituzionali e tecnici di provato valore, in un rapporto di crescente tensione tra i leader e in un clima sociale surriscaldato dall’inconcludenza delle trattative s’incontrano finalmente i capi dei tre principali partiti della maggioranza: Conte, Letta e Salvini. Il confronto registra una convergenza sul nome della diplomatica al vertice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. La candidatura al Quirinale del capo dei servizi segreti sarebbe indigeribile per chiunque avesse chiare le coordinate e i limiti della democrazia. Ma la pressione mediatica confonde la serenità dei leader chiamati a trattare, i quali escono dall’incontro con il proposito di sondare le rispettive aree sul nome della Belloni. A far abortire il progetto è lo show che Salvini e Conte inscenano in piazza, scoprendo alla luce delle telecamere lo scalpo del Presidente donna, con un’esibizione di genere che pare l’insulto più volgare di qualunque dignità del femminile. Il maldestro protagonismo del ritrovato duo giallo-verde trasforma una trattativa riservata in una contesa elettorale. Con l’effetto di approdare a un esito opposto a quello voluto e dichiarato dal segretario della Lega: l’elezione di un capo dello Stato che, ancorché elemento di garanzia e di terzietà per tutti, è tuttavia espressione della cultura politica di centrosinistra.
Questo spaccato della crisi è stato sopravanzato dal provvidenziale ritorno in scena del capo dello Stato uscente. Ma racconta tutto intero, e a prescindere dall’improponibilità di Elisabetta Belloni, il peso della pregiudiziale estetica nella trattativa tra i partiti: il conflitto tra il riserbo prudente di Letta e l’azzardo narcisistico di Conte e Salvini disegna una radicale inagibilità dello spazio politico. A queste condizioni nessuno può riconoscere a nessun altro il ruolo di king maker, perché il bipolarismo è diventato il non luogo della democrazia. Perciò il sì di Mattarella soccorre la politica nel suo più clamoroso naufragio, assicura al Paese la stabilità nel contesto internazionale, ma certifica in controluce il definitivo fallimento dell’assetto bipolare del sistema. La stessa alleanza tra Pd e Cinquestelle trova da questo esito un’ulteriore smentita.
L’evoluzione del quadro politico offre però a Draghi un’occasione inedita: quella di rappresentare sempre più il riferimento di una sensibilità che non si identifica nella contrapposizione tra destra e sinistra. La sua mancata elezione al Quirinale registra un’insofferenza parlamentare che non è una buona notizia per l’impresa riformatrice del governo. Dimostra che fin qui il premier è stato il terzo incomodo, legittimato, prima che dalle Camere, dall’investitura istituzionale del capo dello Stato. Ma la telefonata con cui ha convinto Mattarella ad accettare il bis è in un certo senso il primo atto politico del leader di una maggioranza che in lui si riconosce. Se Draghi intende continuare ad avere un ruolo nella democrazia italiana, deve darsi una prospettiva più squisitamente politica. Non è facile dire in che modo questo cambio di passo possa avvenire. Non si può chiedere a un banchiere settantatreenne, che presti la sua esperienza al Paese, di fondare un partito. Chi prima di lui ci ha provato, non ha avuto buona sorte. Di certo il premier dovrebbe sfidare il potere di interdizione dei leader nell’anno elettorale che si apre, estendendo il raggio della sua azione riformatrice. Dalle policy, come economia e sanità, alle regole della democrazia. La riforma del Csm sarà il primo banco di prova.
Il resto tocca alla politica, assecondando un processo di ricomposizione che è possibile, ma non scontato. Il destino del bipolarismo lo decide la legge elettorale, che è prerogativa dei principali partiti. Le cui prime reazioni depongono per il tentativo di aggrapparsi al salvagente di Mattarella e trascinare in avanti l’agonia. Quando si grida al caro bollette, alla dittatura sanitaria, alla crisi delle piccole imprese, alla guerra in Ucraina, e chi più ne ha più ne metta, si vuol gettare la palla in tribuna e rinunciare a mettere in discussione quel maggioritario zoppicante che dà, ai leader dimezzati dalla figuraccia quirinalizia, l’illusione di egemonizzare il proprio schieramento. Questo per dire che il bipolarismo è morto, ma se qualcuno non s’incarica di seppellirlo, il suo corpaccione ingombrante continuerà ad occupare tutto il campo, negando speranza ai nuovi germogli. È tempo di coraggio.