Mentre la cassa integrazione minaccia il futuro di migliaia di operai dell’ex Ilva, la domanda è sempre la stessa: esiste una via d’uscita per salvare Taranto e i suoi lavoratori, senza sacrificare la salute e la dignità sull’altare del profitto? Le statistiche sono impietose. Incidenti gravi, malattie professionali, un tasso di mortalità superiore alla media nazionale: l’ex Ilva è diventata una fabbrica di dolore, un luogo dove la vita umana sembra valere meno della produzione. I guasti continui, le manutenzioni insufficienti e la mancanza di investimenti in sicurezza creano un ambiente di lavoro inaccettabile. Parallelamente, i licenziamenti e la cassa integrazione erodono il tessuto sociale di Taranto, gettando nello sconforto intere famiglie. Come si può pensare di costruire un futuro dignitoso quando il lavoro, che dovrebbe essere fonte di sicurezza e realizzazione, diventa sinonimo di precarietà e paura?
L’ex Ilva è un simbolo delle contraddizioni del nostro modello di sviluppo: da un lato, la necessità di produrre acciaio per sostenere l’industria; dall’altro, l’impatto devastante sull’ambiente e sulla salute dei cittadini. L’inquinamento atmosferico, le emissioni di sostanze tossiche e i rifiuti industriali avvelenano aria, acqua e terra, causando malattie respiratorie, tumori e malformazioni congenite. Eppure, chi denuncia questi problemi viene spesso accusato di remare contro il progresso, di mettere a rischio i posti di lavoro. Ma è davvero questo il progresso che vogliamo? Un progresso che si basa sullo sfruttamento delle risorse naturali e sul sacrificio delle vite umane?
La transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio rappresenta una sfida epocale, ma anche un’opportunità unica per reinventare l’ex Ilva e il suo ruolo nel territorio. Investire in tecnologie innovative, come l’idrogeno verde e la cattura e stoccaggio del carbonio, può ridurre drasticamente l’impatto ambientale dello stabilimento e creare nuovi posti di lavoro qualificati. Ma la decarbonizzazione non può essere solo una questione tecnica: deve essere un processo partecipativo che coinvolga lavoratori, comunità locali, istituzioni e imprese. Solo così si può evitare che la transizione ecologica si trasformi nell’ennesima occasione persa, con conseguenze drammatiche per occupazione e tessuto sociale.
Non possiamo continuare a tamponare l’emergenza con sussidi e ammortizzatori sociali, che non risolvono il problema alla radice e umiliano la dignità delle persone. Serve un cambio di paradigma, un nuovo modello di sviluppo che metta al centro la persona, il suo benessere e il suo diritto a un lavoro sicuro, dignitoso e gratificante. Questo significa investire in formazione e riqualificazione professionale, affinché i lavoratori dell’ex Ilva possano acquisire nuove competenze e trovare sbocchi occupazionali in settori diversi dall’acciaio. Significa sostenere la nascita di nuove imprese e attività economiche nel territorio, puntando su settori come il turismo sostenibile, l’agricoltura biologica e le energie rinnovabili, per diversificare l’economia locale e creare nuove opportunità di lavoro. Significa anche impegnarsi concretamente nella bonifica ambientale delle aree contaminate, restituendo alla comunità spazi sani e vivibili, fondamentali per la qualità della vita di tutti. Infine, significa costruire un processo decisionale condiviso, in cui lavoratori, cittadini, associazioni e istituzioni partecipino attivamente alle scelte che riguardano il futuro dell’exIlva e di Taranto. Solo così si potrà superare la logica dello scontro, aprendo la strada a una vera rinascita sociale, economica e ambientale.
Il futuro di Taranto e dei suoi lavoratori è nelle nostre mani. Possiamo continuare a piangere morti e licenziamenti oppure possiamo reagire, ribellarci e costruire un futuro diverso, basato su giustizia sociale, tutela dell’ambiente e rispetto della dignità umana. La scelta è nostra. Non possiamo più rimandare.
Bentornato,
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