Aborto, «Molte pugliesi vanno in Emilia»: 52 solo nel 2020

«Molte donne pugliesi si recano in Emilia Romagna per effettuare l’interruzione di gravidanza». Sonia Montegiove, giornalista e coautrice del libro “Mai dati. Dati aperti (sulla 194)”, Fandango Libri, non nasconde il proprio stupore nel raccontare quanto sia stato difficile ottenere informazioni dalle strutture sanitarie. Un muro quello della pubblica amministrazione che spesso è sembrato invalicabile. «Abbiamo chiesto di conoscere le ore di formazione degli specializzandi in ginecologia dedicate all’obiezione di coscienza – spiega Montegiove – e soprattutto di sapere i numeri della migrazione attiva e passiva per le interruzioni di gravidanza. Solo l’Emilia Romagna ci ha risposto».

Il tema della mobilità è particolarmente significativo perché permette di capire, seppure indirettamente, quante donne si sono dovute spostare dal proprio domicilio per vedere garantito un diritto. «Il dato dell’Emilia è comunque significativo seppure faccia riferimento al 2020 – sottolinea l’autrice -. Mi ha colpito vedere che dopo i lombardi sono i pugliesi quelli più numerosi che arrivano da fuori regione. Se per i lombardi può trattarsi di una scelta dettata dalla volontà di avere maggiore privacy, abortendo in un territorio distante da casa, per la Puglia è difficile da spiegare se non con una difficoltà nell’accesso al servizio. È un dato che balza all’occhio. Parliamo di 52 persone solo in quell’anno».

Il problema nel reperire le informazioni è la motivazione principale che ha spinto Sonia Montegiove e Chiara Lalli a scrivere questo libro. «Volevamo capire come venisse applicata in Italia la legge 194 – prosegue Sonia Montegiove -. Se nelle regioni il servizio ambulatoriale è attivato; se ci fossero delle situazioni da verificare. Circa il 40% delle strutture, invece, non ha neanche risposto alle nostre Pec. Eppure la legge imporrebbe che avvenisse entro 30 giorni. Anche con un diniego».

Quando i numeri, invece, sono stati forniti, non sarebbero stati quasi mai utilizzabili a fini statistici. «Alcuni hanno mandato delle tabelle, altri numeri scritti addirittura a penna – racconta la giornalista -. Siamo molto lontani dal rispetto del codice amministrativo digitale che prevedrebbe, su richiesta, la comunicazione di open data, cioè numeri leggibili e rielaborabili attraverso i software. Eppure la legge ha, oramai, più di dieci anni».

La relazione annuale che realizza il ministero della Salute non basta. «Si tratta di un pdf che una volta all’anno fotografa la situazione dei dodici mesi precedenti – sottolinea Montegiove -. Vanno messi a disposizione i dati in formato aperto, così come prevede la legge. Parliamo di servizi che cambiano molto rapidamente tra ambulatori che chiudono o aprono, medici nuovi o che vanno in pensione. Se non vengono mostrati i flussi e gli accessi ai servizio, quasi in tempo reale, non potremo mai avere una elaborazione realistica della situazione».

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