(Adnkronos) – I gesti simbolici hanno sempre un valore relativo. Dipende da chi li fa, da come si fanno, dalla posta in gioco. Alcuni sono più forti di altri, e possono lasciare il segno. La decisione dei giocatori dell’Iran di non cantare l’inno, rimanendo immobili e in silenzio in polemica con le violenze di cui è responsabile il regime di Teheran, sono il primo fatto significativo dei Mondiali 2022 in Qatar.
Volti tirati, di fronte al mondo e con le telecamere a stringere sugli occhi, con il pubblico diviso tra i fischi e qualche striscione a sostegno dei diritti umani, per prendere una posizione netta, senza alcuna ambiguità. La nazionale di calcio dell’Iran si dissocia dal proprio Paese perché non vuole accettare di omologarsi. E questa scelta ha un prezzo, alto. Rischiano personalmente, come iraniani prima ancora che come calciatori. Il dissenso, plateale, potrà avere conseguenze ma evidentemente è un dissenso non negoziabile. Alla vigilia, il difensore Ehsan Hajsafi aveva parlato chiaro in conferenza stampa, avvertendo che la nazionale iraniana in questo mondiale avrebbe rappresentato “la voce del suo popolo”. E ha mantenuto la sua parola.
Tutto il resto, il tira e molla con la Fifa per la fascia ‘One love’ pro Lgbtq e anche la scelta della nazionale inglese di inginocchiarsi prima del fischio di inizio, pure utile a testimoniare una presa di coscienza, è solo contorno. Discutibile l’ostinazione della Fifa a impedire manifestazioni troppo ingombranti, evidente frutto di un compromesso con le autorità del Qatar. Apprezzabile, ma anche poco dispendioso, il contributo dei calciatori inglesi.
Il fatto, per ora, è uno solo. Il coraggioso, e clamoroso, ‘no’ dei giocatori dell’Iran alla legge del più forte. (di Fabio Insenga)