(Adnkronos) – Israele ha deciso di “rinviare l’operazione di terra” nella Striscia di Gaza, mentre proseguono i bombardamenti contro l’enclave palestinese controllata da Hamas, dove – secondo il gruppo – si contano più di 5.000 morti. In attesa dell’arrivo di altri asset americani nella regione, la rivelazione è arrivata dalla radio dell’Esercito israeliano a meno di una settimana dalla missione in Israele di Joe Biden, che a Benyamin Netanyahu ha confermato il sostegno Usa dopo il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre in Israele, ma ha anche ricordato agli israeliani “gli errori” fatti dagli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 Settembre 2001.
A due settimane dall’attacco, gli Stati Uniti cercano di prevenire lo scenario di una guerra più ampia nella regione in un quadro in cui le speranze dell’Amministrazione Usa di espansione degli Accordi di Abramo, sottoscritti da Israele con alcuni Paesi arabi all’epoca di Donald Trump alla Casa Bianca, sembrano almeno ‘archiviate’. La diplomazia però non si ferma. Prima di Biden erano stati in missione nella regione il segretario di Stato Usa, Antony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin che poco dopo il summit del Cairo di sabato ha annunciato il dispiegamento di altri asset Usa nella regione. E, evidenzia il Washington Post, sebbene Biden sia riuscito a ritardare l’avvio di un’offensiva israeliana a Gaza, la probabilità di una estenuante guerra di terra resta alta.
Il giornale israeliano Haaretz sottolinea come non sia chiaro il motivo del rinvio dell’operazione di terra nella Striscia, tra i preparativi israeliani e le pressioni Usa dopo i rapporti di stampa secondo cui gli Stati Uniti avrebbero suggerito di attendere per facilitare il rilascio degli ostaggi.
Funzionari Usa hanno confermato al New York Times che la Casa Bianca vuole che Israele lasci più tempo per i negoziati per la liberazione degli ostaggi tenuti prigionieri a Gaza e per l’arrivo di aiuti nella Striscia prima dell’avvio di un’operazione di terra.
Così, secondo Haaretz, a livello politico Israele mantiene l’ambiguità. Anche perché la leadership israeliana vuole mostrarsi indipendente. Senza contare che negli ultimi giorni in molti, secondo il giornale, avrebbero manifestato il timore che il prezzo di un’incursione di terra supererebbe di gran lunga i benefici di una simile operazione, suggerendo piuttosto la ‘via’ di martellanti raid aerei per sfinire Hamas.
Sabato da un sondaggio del quotidiano Maariv emergeva come la stragrande maggioranza degli israeliani – l’80% – ritenga che Netanyahu debba assumersi pubblicamente la responsabilità per la situazione che ha portato al terribile attacco del 7 ottobre (e anche come la maggioranza degli israeliani, il 65%, sia d’accordo per l’avvio di un’operazione di terra nella Striscia).
Né Biden (che ieri ha riparlato con Netanyahu), né Blinken, né Austin o altri in contatto diretto con le controparti israeliane, hanno detto a Israele cosa fare o cosa non fare, scrive il Washington Post citando le dichiarazioni rese in pubblico e interviste a funzionari dell’Amministrazione Usa e stranieri che hanno raccontato dei contatti intensi di questi giorni a condizione di anonimato.
In Israele Biden non ha nascosto i suoi timori e ha posto interrogativi agli interlocutori, dalle capacità di resistenza di Hamas alla protezione dei civili, dalla questione degli ostaggi in mano a Hamas dal 7 ottobre agli aiuti umanitari per la popolazione assediata di Gaza. Ma anche la Cisgiordania, gli attacchi degli Hezbollah libanesi contro il nord di Israele e il possibile coinvolgimento diretto dell’Iran, fino al futuro di Gaza in un dopo-Hamas e alla pace in Medio Oriente.
Tra l’altro, secondo il Post, l’attenzione mondiale si sta spostando dalla solidarietà a Israele per le stragi del 7 ottobre ai timori per le sofferenze dei civili palestinesi. Si infiammano le piazze arabe. E, le forze Usa nella regione, evidenzia il giornale, rischiano di essere trascinate nel conflitto. Sono già finite nel mirino di attacchi con droni e razzi in Iraq e Siria. La scorsa settimana un cacciatorpediniere Usa nel Mar Rosso ha intercettato e abbattuto tre missili da crociera e diversi droni lanciati dagli Houthi dello Yemen, apparentemente in direzione di Israele.
Stando al Post, l’arrivo – il 13 ottobre – di Austin a Tel Aviv coincideva con crescenti timori che la situazione potesse sfuggire al controllo e nei colloqui con il ministro israeliano della Difesa, Yoav Gallant, il capo del Pentagono ha invitato tutti a “pensare a quello che stanno cercando di ottenere” e a come riuscirci. Pubblicamente, prima di lasciare Israele, Austin riconosceva come non fosse il momento della “neutralità” o di “scuse per l’ingiustificabile” attacco di Hamas contro Israele, ma faceva anche appello alla calma, ‘sconsigliando’ la strada della “vendetta”.
Un messaggio arrivato anche da altri governi occidentali. “Il nostro consiglio non è ‘non fatelo’ – ha detto un ministro della Difesa di un Paese Nato – Ma di pensare a cosa succede e di avere una strategia non solo una manovra tattica”.
Intanto i giorni passano e, mentre l’attenzione è concentrata sull’annunciata operazione di terra israeliana nella Striscia, sembrano non esserci molti passi in avanti sulle questioni umanitarie. Venerdì Hamas ha rilasciato due ostaggi con passaporto americano, ma per gli altri 222 (dati forniti dalle forze israeliane) non ci sono notizie. Sabato mattina sono stati fatti passare dal valico di Rafah, al confine tra Gaza e l’Egitto, 20 camion di aiuti umanitari. Domenica ne sono passati altri 14. Oggi altri ancora. Serve molto di più, dicono in tanti. E nel frattempo a nessuno – né stranieri né palestinesi – è stato concesso di lasciare Gaza.
Al quadro si aggiunge quanto rivelava sabato il New York Times secondo cui Biden e altri esponenti della sua Amministrazione starebbero esortando Israele a non condurre un attacco importante contro Hezbollah, sviluppo che potrebbe far entrare la potente milizia libanese, nella guerra in corso con Hamas. Evitare due fronti in contemporanea, un allargamento del conflitto che potrebbe portare a un coinvolgimento diretto di Stati Uniti e Iran, sponsor di Hezbollah, accusato di sostenere gli Houthi dello Yemen e anche Hamas.