Decreto lavoro, come cambiano i contratti a termine

(Adnkronos) – Come cambiano i contratti a termine con il nuovo decreto lavoro? “Il testo di decreto di prossima approvazione dal Governo in tema di contratti a termine sebbene migliorativo di quello inutilmente restrittivo a suo tempo introdotto dal cosiddetto decreto Dignità (dl 12 luglio 2018, n. 87 convertito poi da L. 96/2018) appare non in linea con le esigenze di flessibilità e celerità di aziende e lavoratori, introducendo una procedura che irrigidisce e burocratizza la sottoscrizione dei contratti a termine di durata superiore ai 12 mesi di durata”, dice all’Adnkronos/Labitalia il giuslavorista Luca Failla, sulle ipotesi sulle modifiche ai contratti a termine che dovrebbero essere incluse nel dl lavoro, previsto in cdm per il prossimo 1° maggio.  

“Di fatto resterà libera, come già oggi del resto, la stipulazione dei contratti a termine (e di somministrazione) entro i 12 mesi di durata mentre per quelli di durata successiva – salvo i casi di sostituzione di personale e contratti stagionali – occorrerà obbligatoriamente inserire causali se ed in quanto previste dalla contrattazione collettiva anche a livello di azienda ovvero da ‘certificare’ avanti le commissioni di conciliazione presenti sul territorio, con indubbie lungaggini a carico di aziende e lavoratori che confliggono con le esigenze di snellezza e celerità della continuità del lavoro”, spiega Failla. 

“In attesa che la contrattazione collettiva -continua Failla- riprenda il proprio spazio responsabile che le è stato sottratto da anni su questo tema (diversamente da quanto previsto invece dalla Legge n. 56/1987 che aveva dato il via ad una proliferazione responsabile di causali a termine da parte della contrattazione collettiva), il superamento della durata dei 12 mesi di contratto resta oggi possibile solo in casi di contratti ‘certificati’ dalle commissioni di conciliazione”.  

“Tale ultimo meccanismo di controllo e verifica amministrativa – previsto anche per i rinnovi dei contratti oltre i 12 mesi – non tiene conto -spiega ancora il giuslavorista- tuttavia dei tempi, spesso lunghi, di convocazione delle commissioni di conciliazione tra la fine del primo contratto e l’avvio di quello successivo, con inevitabile gap occupazionale/lavorativo a danno delle aziende e perdita di salario per i lavoratori interessati che, in attesa della sottoscrizione del nuovo contratto (o del rinnovo) formalizzata in Commissione, dovranno sospendere la attività lavorativa per non incorrere nelle gravi sanzioni previste dalla legge (conversione del contratto a termine in uno a tempo indeterminato)”. 

Per Failla “ancora maggiore sarà il disagio a carico di aziende e lavoratori, anche solo per i meri rinnovi dei contratti oltre i 12 mesi (possibili fino a 6 per i contratti di somministrazione e fino a per i contratti a termine) per i quali, in assenza di previsioni normative ad hoc, in via cautelativa dovrà seguirsi la medesima procedura di sottoscrizione assistita presso le commissioni di conciliazione, con blocco della attività lavorativa tra un periodo e l’altro di rinnovo. Ci si chiede – sottolinea il giuslavorista – in che modo tale procedura potrà essere davvero apprezzata da aziende e lavoratori”.  

“Di fatto -conclude Failla- si tratta di un meccanismo burocratico che tenderà inevitabilmente a scoraggiare la stipulazione di contratti di durata superiore a 12 mesi (e di rinnovi ad essi collegati), comportando invece il turn over dei lavoratori dopo i 12 mesi a danno dei lavoratori medesimi. Meglio sarebbe stato, come già in passato, tornare a liberalizzare la durata dei contratti a termine sino a 24 mesi, imponendo causali specifiche solo per la stipulazione di contratti di durata superiore”, conclude.  

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