2022, ‘staffetta’ Draghi-Meloni: a Palazzo Chigi la prima donna premier

(Adnkronos) – Quattordici luglio 2022. E’ la data che segna uno spartiacque nella politica italiana, un pezzo di attualità destinato ad entrare nella Storia del Paese: Mario Draghi rassegna le dimissioni dopo aver incassato la fiducia al Senato sul dl aiuti ma senza l’appoggio di un pezzo di quella variegata maggioranza di unità nazionale nata per volontà del Capo dello Stato Sergio Mattarella appena 17 mesi prima. La notizia in un battibaleno fa il giro del mondo, nel segno di quell’instabilità, tutta italiana, che da sempre permea Roma e i suoi Palazzi del potere.  

A innescare l’ennesimo terremoto politico è il M5S, che non vota la fiducia al decreto aiuti in segno di dissenso per la norma sull’inceneritore nella Capitale, misura non ‘sbianchettata’ nel testo nonostante un braccio di ferro che si protrae da giorni e che ha visto l’ex premier Giuseppe Conte, attuale leader del Movimento, bussare al portone di Palazzo Chigi con un documento in 9 punti, uno per ciascuna richiesta avanzata dal Movimento. L’ex premier chiede un cambio di passo del governo di cui il M5S è entrato a far parte dopo un travaglio che ha provocato un vero e proprio tsunami interno, con tanto di addio di Alessandro di Battista, volto storico e colonna portante dei 5 Stelle. 

Ironia della sorte, l’unica forza politica che si è tirata fuori dall’esecutivo nato un anno e mezzo prima -Fdi di Giorgia Meloni- è la più ‘quotata’ a raccogliere il testimone di Draghi: i sondaggi, nessuno escluso, la danno in forte vantaggio, una spanna avanti alla Lega -di cui ha cannibalizzato i consensi- ma anche in sorpasso sul fronte progressista uscito a brandelli dalla caduta del governo, con il M5S sotto accusa e il Pd sul piede di guerra, pronto a mandare all’aria un’alleanza che ormai scricchiola da tempo.  

Il 20 luglio Draghi torna in Senato, su mandato di Mattarella che ne ha respinto le dimissioni confidando in una ricomposizione: la speranza è in un nuovo patto che rimetta in piedi la maggioranza. Ma l’ex numero 1 della Bce su questo punto è fermo, granitico: non vuole metamorfosi, uscite di scena compensate da nuovi innesti – resterà solo se la maggioranza rimarrà invariata, col M5S dentro. Il ‘kintsugi’ tuttavia fallisce -complice un intervento dai toni duri, in cui Draghi tira dritto sulle responsabilità che attendono la maggioranza semmai deciderà di rimettersi in gioco-, la ‘sfiducia’ arriva per il mancato voto non solo del Movimento, ma anche di Lega e Forza Italia alla mozione ‘salva Draghi’ firmata da Pier Ferdinando Casini.  

Al Presidente Mattarella non resta che sciogliere le Camere e ‘chiamare’ la Nazione al voto, che si terrà due mesi e una manciata di giorni dopo, il 25 settembre. Draghi resta in carica per il disbrigo degli affari correnti, ma in una formula ‘allargata’ per via dell’emergenza in cui il Paese si trova, tra guerra in Ucraina e conseguenti contraccolpi su bollette e inflazione. Porta avanti il lavoro sul Pnrr, in pressing sui ministeri per un passaggio di consegne che veda il più alto numeri di obiettivi messi a segno. Resta impermeabile a una campagna elettorale dai toni duri, a tratti durissimi – non si lascia tirare dalla giacca da chi cerca di coinvolgerlo nel dibattito politico, anche inneggiando a una ipotetica agenda Draghi. 

Lascerà Palazzo Chigi il 23 ottobre dopo aver consegnato la ‘campanella’ alla prima premier donna del Paese: Giorgia Meloni, passata in 10 anni dal 2% dei consensi al 26% dei voti, una tenace ‘underdog’, come lei stessa si definisce nel discorso con cui chiede la fiducia in Parlamento. E che la porta alla guida di un governo di centrodestra composto da 24 ministri, al suo fianco due vicepremier in rappresentanza dei due maggiori azionisti di governo, tolta Fdi: Matteo Salvini e Antonio Tajani. 

La formazione del governo avviene in tempi lampo, meno di un mese, ma non per questo appare meno travagliata. Il solito braccio di ferro tra le forze di maggioranza per la ripartizione delle ‘poltrone’ viene terremotato da un audio ‘rubato’ durante l’assemblea di Silvio Berlusconi con i gruppi di Forza Italia: la lettura e il racconto del leader azzurro della crisi internazionale -dal riavvicinamento a Vladimir Putin al giudizio sul presidente ucraino fino all’analisi sull’origine del conflitto tra Mosca e Kiev- minano la fase embrionale del governo, fino a metterne a rischio la stessa nascita. Meloni mantiene il sangue freddo e lancia l’aut aut: ‘atlantisti o l’esecutivo non vedrà la luce’, mette in chiaro. Dunque sparisce dai radar, si rimette a lavoro pancia a terra, dopo meno di 24 ore sale al Colle con la lista dei ministri messa nero su bianco, il giuramento avviene l’indomani. 

Il governo Meloni si mette al lavoro e nel primo Cdm utile, a fine ottobre, vara un decreto anti-rave che prevede confisca degli oggetti utilizzati durante l’occupazione, reclusione da 3 a 6 anni, multe da 1.000 a 10.000 euro. Il dl, fortemente contestato dalle opposizioni e poi rivisto incisivamente dal Parlamento, introduce anche novità sull’ergastolo ostativo, nonché lo stop all’obbligo vaccinale anti-Covid per medici e professioni sanitarie.  

Stretta sulla sicurezza, mano tesa a esercenti e autonomi, ‘allentamento’ della stretta anti-Covid sono i temi, i dossier, su cui Meloni marca maggiori distanze rispetto al predecessore. Sul fronte interno, naturalmente. Perché, a livello internazionale, benché la premier scelta non a caso Bruxelles per il suo primo viaggio all’estero -un chiaro messaggio di rassicurazione rivolto a chi tacciava il governo di anti-europeismo- la distanza dall’ex numero 1 della Bce emerge in tutta la sua evidenza nell’incidente diplomatico con la Francia di Emmanuel Macron. 

A far scoppiare la mina, il ricollocamento di migranti a bordo della nave Ocean Viking della ong Sos Mediterranee, con oltre 230 persone a bordo. La rotta viene deviata verso la Francia dopo un colloquio tra Macron e Meloni a margine dei lavori della Cop27 a Sharm el-Sheikh. Il governo italiano ringrazia con una nota ufficiale, ma Macron non apprezza, si indispettisce per una questione che, a suo dire, andava gestita diversamente e senza rivendicazioni politiche considerate inadeguate. Meloni non incassa, in conferenza stampa risponde per le rime al Presidente francese, tanto che, per oliare i rapporti con l’Eliseo, scende in campo il Quirinale. 

A Bali, per il G20, Macron e Meloni si ignorano -i due sembrano attenti a mantenere la ‘distanza di sicurezza’ durante la lunga passeggiata alla foresta delle mangrovie- ma la premier italiana riesce ad incassare bilaterali di peso, fa en plein degli incontri che contano. Con Joe Biden innanzitutto, con la promessa di volare presto a Washington, ma anche con Xi Jinping: un’ora di colloquio tra i due, intesa sugli scambi -a partire dall’export del made in Italy – e anche qui un invito, benaccetto, per una visita a Pechino quanto prima.  

Al rientro a Roma sono due le sfide che attendono la premier: il voto sul decreto per tornare a inviare armi a Kiev -in piena continuità con la linea Draghi che Meloni ha sposato appieno anche quando sedeva sui banchi dell’opposizione- e la manovra da varare in tempi strettissimi. Anche qui, sulla tenuta dei conti, sul debito da tenere a bada, la presidente del Consiglio ricalca l’impostazione del suo predecessore, tanto da incassare il giudizio positivo di Bruxelles. Che frena, però, sulle misure bandiera, ovvero quelle norme identitarie e politiche che Meloni inserisce in legge di bilancio generando l’ira delle opposizioni: stop alle multe per gli esercenti che rifiutano pagamenti elettronici sotto i 60 euro, tetto al contante a 5mila euro, proroga di quota 103 sulle pensioni, flat tax. Sul pos, dossier che rientra nella trattativa con l’Europa sul Pnrr, il governo è costretto al passo indietro, pur ricorrendo a un plan B per risarcire gli esercenti delusi.  

La transizione più o meno ordinata – come auspicato da Draghi e condiviso da Meloni – prosegue ora tra il bisogno di continuità sulle grandi questioni internazionali e la necessità di dare spessore e colore ad un governo politico. Ecco perché i prossimi mesi per la premier saranno impegnativi. Per continuare ad incassare le rate del Pnrr – di cui l’Italia oggi non può fare a meno – bisognerà adempiere ad una serie di scadenze che marciano in direzione opposta alla Meloni conosciuta in campagna elettorale. Arriverà a destinazione la riforma del fisco, in cui non potranno trovare spazio altre tasse piatte o condoni di alcun genere. Per non parlare della riforma della concorrenza con il capitolo irrisolto delle norme sui taxi e delle ormai famigerate concessioni balneari.  

Se a tutto questo aggiungiamo la competizione interna alla coalizione di governo e quel rapporto non sempre fluido con Forza Italia e Lega, è facile immaginare che il 2023, per Giorgia Meloni, non sarà una passeggiata. Come del resto non lo è stato l’esordio a Palazzo Chigi. 

Due mesi pieni, per la premier, con un cambio significativo anche dal punto di vista comunicativo. Da Draghi, che ha sempre rifiutato persino profili social personali -in questo un unicum nel panorama politico italiano e internazionale- si passa a una presidente del Consiglio che punta anche sulla ‘disintermediazione’, senza rinunciare -una volta approdata a Palazzo Chigi- alle liti con i cronisti e al filo diretto con i cittadini: a dicembre Meloni lancia i ‘diari di Giorgia’, rubrica social in cui aggiorna i suoi follower sui principali dossier del governo di cui è alla guida. Perché, anche a Palazzo Chigi, la promessa è di restare fedele a quell’immagine di underdog che le ha permesso di rovesciare i pronostici, tagliare il traguardo in barba a chi la dava perdente ai nastri di partenza.  

 

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