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Ex Ilva, il racconto di un operaio: «Entrare in fabbrica era un sogno, ora è un incubo» – L’INTERVISTA

«Il pane sicuro, questo immaginavo fosse l’ex Ilva quando sono entrato, un sogno per me che non avevo neanche 30 anni. Ora è un incubo», a parlare senza mezzi termini è Dioniso Nasole, operaio nel tubificio Erw della fabbrica della sua città, poco distante da casa sua, che è nel quartiere Tamburi, la zona popolare…

«Il pane sicuro, questo immaginavo fosse l’ex Ilva quando sono entrato, un sogno per me che non avevo neanche 30 anni. Ora è un incubo», a parlare senza mezzi termini è Dioniso Nasole, operaio nel tubificio Erw della fabbrica della sua città, poco distante da casa sua, che è nel quartiere Tamburi, la zona popolare di Taranto quella più vicina all’acciaieria, quella che risente più di ogni altro luogo della città dei fumi, dello slopping, quando avviene.

È un incubo perché?

«Guardi è un andare e venire dalla cassa integrazione. Io lasciai la Marina, dove mi ero arruolato, prima iniziai a lavorare in piccole aziende dell’indotto, poi finalmente nel 2000 entrai in fabbrica. Ho 51 anni adesso, ero un ragazzino. Misi su famiglia, avevo delle certezze. Poi non si sapeva niente di tante cose, dell’inquinamento, delle morti per cancro. Ora ho paura, ma mi dica qual è l’alternativa? Non c’è. Io sono in cassa integrazione a zero ore, da tempo, con parentesi di rientro. Mi chiede perché è un incubo? Ho paura. Ho paura di essere buttato fuori. Ho paura che i miei cari possano ammalarsi. Ne ho visto tanti di amici che hanno perso una moglie, un figlio».

È colpa della fabbrica?

«Io non lo so. Lo dicono i medici. E’ certo però che c’è una incidenza maggiore di patologie in questo territorio. Anche nel quartiere dove vivo».

Lei lavora però in un reparto che non inquina.

«E’ vero. Un reparto fondamentale, siamo in 50. Ma praticamente spesso in cassa integrazione a zero ore, io dal 2008, eppure questo è un comparto cruciale, non riusciamo a spiegarci che accade».

Avete aspettative rispetto a ciò che sta per accadere al futuro dell’Acciaieria dopo i commissari? Se ne parla in fabbrica?

«I sindacati ci dicono che lo “spezzatino” non va bene, che serve un unico interlocutore. Noi tante cose non le sappiamo, ci fidiamo. Vogliamo lavorare. Ci hanno assicurato, dopo l’incontro a luglio, a Roma che non ci saranno esuberi. Ci crediamo. Speriamo di tornare attivi».

Poi sa nel bando c’è il progetto di decarbonizzazione. L’Europa ha posto all’Italia delle scadenze (2030). Vi sentite rassicurati per questo?

«Riconvertire non è facile. Servono tantissimi soldi. Sinceramente non ci scommetterei. E poi sa servono anche competenze diverse, formate. Faccio un esempio all’Altoforno 4 ci sono 300 addetti convertitori, per uno elettrico ne bastano cinquanta. Certo ci dicono che nessuno sarà licenziato, ma al massimo formato. Solo che come si fa a decarbonizzare una fabbrica grande come l’ex Ilva? Bah».

Significa produrre e provare a non inquinare. Ci sono luoghi dove accade. Magari, come avveniva un tempo, il pane sicuro e anche la salute la può assicurare anche ai suoi figli.

«Per carità, ho tre figli, due splendide ragazze e un ragazzo, l’ultimo di 19 anni, loro studiano e hanno già la valigia pronta. Il futuro in fabbrica non lo auguro a nessuno. Mia figlia più grande ha già avuto un contratto lontano da Taranto, il più piccolo appena diplomato mi auguro entri in Marina, da dove io, sbagliando sono andato via. Per me posso solo augurarmi di arrivare alla pensione, in salute».

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