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Storytelling corner: quando si parla di guerra la storia non è maestra

Ho frequentato, e mi sono laureato lì nei primi anni 2000, la facoltà di Lettere a Bari. Sui muri dell’Ateneo c’erano tante scritte contro la guerra, il capitalismo, l’imperialismo americano. Erano queste le parole preferite di chi voleva lasciare un segno su quei muri. Un giorno mi sono imbattuto in un grido disperato contro il…

Ho frequentato, e mi sono laureato lì nei primi anni 2000, la facoltà di Lettere a Bari. Sui muri dell’Ateneo c’erano tante scritte contro la guerra, il capitalismo, l’imperialismo americano. Erano queste le parole preferite di chi voleva lasciare un segno su quei muri.

Un giorno mi sono imbattuto in un grido disperato contro il conflitto nella ex Jugoslavia. Si trattava di un gioco di parole, tre per la precisione, e diceva: Non fossi mai NATO. L’ignoto, o ignota, ce l’aveva con l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, rea di non intervenire nei teatri – chissà perché si chiamano così, “teatri” – di guerra balcanici. Oggi, vent’anni e qualche mese dopo, mi è tornata in mente quella scritta. Come se il tempo non fosse passato, come se avessimo ancora bisogno di dire che la guerra è una cosa insensata e anacronistica, che la sola idea di dover riempire i giornali e i siti di news di questa parola è folle.
I primi anni 2000 sono anche quelli de “Il mio nome è mai più”, la canzone di Jovanotti, Ligabue e Piero Pelù, in cui i tre chiedono i nomi di chi ha mentito, di chi ha parlato di una guerra giusta, di chi si impegna a fare i conti con la propria vergogna. E di chi – penso io due decadi dopo – ormai non li fa nemmeno più i conti. Gino Strada ci ha ricordato per anni che le guerre sono state sempre decise dai ricchi e dai potenti che hanno mandato a morire i figli dei poveri, e chi pensa che questa sia retorica farebbe bene ad aprire un libro di storia per controllare quanto sia ciclica la stupidità umana.
Gli avvenimenti successi negli ultimi due anni ci hanno reso meno sicuri di noi stessi. Meno ottimisti, banalmente. Non è per forza un male, spesso l’ottimismo è cieco, ottuso. Eravamo la generazione che pensava “a noi non succederà”, poi è arrivata una pandemia e ci siamo ritrovati all’improvviso a non poter uscire di casa, a rimandare le feste, a temporeggiare con i baci e gli abbracci. Abbiamo usato le parole della guerra, le zone rosse, l’isolamento, le task force, il coprifuoco.
In questi giorni il conflitto tra Russia e Ucraina non ci sembra poi così lontano, abbiamo accettato l’idea che possa capitare anche noi di dover avere paura. Le distanze si sono accorciate, la Russia e l’America non sono più dall’altra parte della luna. Quando mio padre, che era già molto grande quando mi ha visto nascere, mi raccontava della seconda guerra mondiale, mi metteva paura. Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo, di interrompere quei racconti di trincea. Ero bambino e l’unica domanda logica che mi veniva in mente era: «Ma perché esiste la guerra?». Perché non ci si mette d’accordo una volta per tutte per non farla più? Me lo chiedo ancora oggi, a più di trent’anni di distanza da quelle sue storie, a venti dalla scoperta di un murales in Ateneo che diceva Non fossi mai NATO. Con la sensazione che se la guerra non ci sarà, sarà per rassegnazione, e che la legge del più forte e arrogante avrà comunque trionfato. Il suo nome poteva essere mai più, invece è qui più vivo, vivido e conturbante che mai. È guerra.

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