«Il problema che invita ad affrontare il film è di conoscere quello che succede all’interno delle nostre fabbriche nel sistema industriale. Quello della palazzina Laf dell’Ilva è la storia di un reparto lager, che serviva al padrone per fornire la giusta causa di licenziamento o in alternativa a costringere il lavoratore ad andare via da solo perché l’ambiente di lavoro era un luogo di tortura». Svestiti i panni di Vincenzo Florio, il protagonista della serie di successo “I Leoni di Sicilia”, Michele Riondino è pronto ad affrontare il debutto in sala della sua opera prima da regista intitolata “Palazzina Laf”. E da tarantino doc, l’ispirazione per il suo lavoro non poteva che nascere da una storia della sua terra, ufficialmente sullo schermo giovedì 30 novembre. Un caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro: 79 lavoratori altamente qualificati costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale “una specie di manicomio”. Per la prima volta il confino in fabbrica fu associato a una forma sottile di violenza privata e per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico si introdusse il concetto di mobbing. Dopo l’anteprima di ieri al cinema Casablanca di S. Giorgio Ionico, oggi Riondino – anche nel cast accanto a Elio Germano – sarà al cinema Savoia Citiplex nella sua città natale per salutare il pubblico all’inizio e alla fine degli spettacoli (alle 17, 18.30, 19, 20.30 e 21). Il tour di presentazione pugliese del film prosegue domani, venerdì 24 alle 19.30, al Cinema Red Carpet di Monopoli, mentre nella stessa serata, alle 21, il regista tarantino sarà al Multicinema Galleria di Bari.
Come nasce il film? Cosa ti ha spinto a raccontare una storia apparentemente “laterale” al tema ambientale?
«Tutti si aspettavano un lavoro sulla questione più contemporanea legata alla vertenza Ilva. Questo mi ha messo alle strette e nella condizione di dover spiazzare gli spettatori e l’aspettativa che c’era nei miei confronti in qualità di regista. Credo sia necessario conoscere le genesi del problema tarantino. Quello che viviamo oggi è la conseguenza di una crisi nata tanti anni fa, e la storia della palazzina Laf a mio giudizio appartiene a quella genesi. È in quegli anni che nasce il ricatto occupazionale che siamo stati costretti a subire. L’inquinamento nasce in quegli anni ed è legato alle coscienze. È un inquinamento del pensiero. Ho affrontato il tema dal punto di vista strettamente umano e lavorativo. La Palazzina Laf è un simbolo anche perché oggi abbiamo 4500 cassintegrati che ricordano esattamente i “confinati”»
A proposito di umanità, che lavoro c’è dietro il film nel ricostruire le dinamiche di quel luogo?
«Ho fatto una ricerca molto lunga, durata sette anni. Sono partito da un libro di Claudio Virtù, uno dei confinati, che mi è stato utile per avere la dimensione della storia. Partendo dal suo racconto e dalla sua persona sono riuscito a mettermi in contatto con altri suoi compagni di sventura. Ho raccolto anche le testimonianze dei procuratori Franco Sebastio e Alessio Coccioli e di Marisa Lieti. Ho messo insieme il punto di vista di chi quella storia l’ha vissuta in prima persona, di chi l’ha osservata dall’esterno, di chi l’ha indagata. E poi ho studiato le carte processuali».
Che definizione daresti al lungometraggio? Possiamo parlare di un’opera politica?
«Non sta a me dare una definizione del film. Sicuramente nasce anche dal fatto che alcuni personaggi della politica e dei sindacati in questi anni abbiano trovato il tempo di consigliarmi di dedicarmi al mio lavoro piuttosto che alla questione tarantina. Ecco, ho pensato bene di seguire il loro consiglio».
Diodato, altro tarantino doc, firma la musica. Da artisti che speranza nutrite nei confronti della vostra terra?
«In questi anni dal punto di vista della vertenza Ilva la situazione non è per niente migliorata. Il progetto che hanno per quell’azienda è quello di continuare a tenerla in vita quando in realtà è morta già da 10 anni. E non siamo stati noi artisti o attivisti ad ammazzarla, ma è stato il mercato. È stata una scelta scellerata di rendere quella azienda il più grande competitor di acciaio, si è trattato di un suicidio industriale e politico. Oggi raccogliamo i frutti di queste decisioni sbagliate. L’unica speranza è quella di poter condizionare il pensiero delle generazioni che saranno totalmente indipendenti dal siderurgico e non avranno paura di parlare di chiusura e giustizia sociale. Il problema continua a essere vivo perché la politica che dovrebbe risolverlo scappa e continua a trattare l’argomento come se fosse un tabù. Antonio conosce bene la materia e ha regalato al film un brano bellissimo con delle parole molto importanti che non a caso sono nei titoli di coda. Perché il testo della canzone di Diodato fa parte della sceneggiatura e rappresenta l’epilogo della storia. Invito il pubblico e gli spettatori ad aspettare prima di alzarsi dalla poltrona».