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Medico lascia Pronto soccorso: “Ritmi insostenibili, peggio che in fase Covid”

(Adnkronos) - "Il lavoro in Pronto soccorso, in sé, è bellissimo. Ci sono arrivato per caso, in pieno Covid, ma poi mi sono innamorato. Ora però è diventato incompatibile con una qualità della vita minimamente accettabile, tra turni massacranti, continue sostituzioni dei colleghi, visto che siamo sempre meno". Marcello Di Paolo, 35 anni, da tre…

(Adnkronos) – “Il lavoro in Pronto soccorso, in sé, è bellissimo. Ci sono arrivato per caso, in pieno Covid, ma poi mi sono innamorato. Ora però è diventato incompatibile con una qualità della vita minimamente accettabile, tra turni massacranti, continue sostituzioni dei colleghi, visto che siamo sempre meno”. Marcello Di Paolo, 35 anni, da tre anni medico del Dipartimento di emergenza-urgenza di un grande ospedale romano, il San Giovanni Addolorata, racconta all’Adnkronos Salute, nella sua ultima settimana di lavoro nella struttura romana dalla quale si è dimesso, la sua scelta di lasciare il Pronto soccorso e diventare medico di famiglia, anche se questo significherà meno soldi e un ‘passo’ indietro in ospedale, dove farà tirocinio – previsto nel percorso di formazione e ingresso alla medicina di famiglia – in reparti dove ha lavorato per anni. 

“Passerò da uno stipendio medio di 3mila euro al mese ad una borsa di studio di 900 euro” necessaria per fare il medico di famiglia. “E, nonostante la mia specializzazione in medicina Interna, gli anni in Pronto soccorso e un curriculum con formazione all’estero, dovrò tornare in medicina Interna e Pronto soccorso. Ma sono convinto della mia scelta. I ritmi sono diventati insostenibili. La necessità di sostituire colleghi che si ammalano o hanno altre necessità è continua perché bisogna garantire assistenza sulle 24 ore e il personale è sempre di meno. Non c’è nessuna possibilità, quindi, di programmare nessun aspetto della propria vita al di fuori dell’ospedale. E anche le ferie vengono programmate in anticipo di mesi, senza nemmeno la possibilità di scegliere il periodo o di fermarsi un giorno quando si è esausti”. 

A questo si aggiungono le difficoltà che la situazione comporta nei rapporti con il paziente. “Ogni giorno siamo vittime di violenze verbali e fisiche. Anch’io ho sperimentato aggressioni fisiche, e questo senza tutele. Si percepisce l’assenza totale di sostegno pratico. Solo recentemente nella nostra struttura è stato aperto un posto di polizia fisso”. I pazienti che, “comprensibilmente, vivono il disagio delle attese, sfogano su di noi la loro rabbia e sofferenza, l’autorevolezza della figura del medico non esiste più. Noi possiamo essere empatici, comprendere, ma non possiamo risolvere un problema che non dipende da noi e pagarne il prezzo”. Una situazione che, “paradossalmente è peggiore adesso rispetto a quella dell’emergenza pandemica, quando sicuramente il lavoro era intenso, totalizzante, spaventoso. Ma c’era anche attenzione a noi medici, una prospettiva, l’idea che, una volta finita la battaglia contro il virus qualcosa sarebbe cambiato. Sembrava che tutti avessero capito l’importanza della sanità”.  

Invece oggi “tutti sembrano far finta di niente, come se il problema dei Pronto soccorso, della mancanza di personale, non esistesse. Come fosse solo un problema mediatico invece che, come in realtà è, persistente e serio. Personalmente non vedo alcuna prospettiva, in queste condizioni è inevitabile che il sistema vada ad implodere. E’ la mia convinzione personale, ma ci sono evidenti segnali”.  

Il passaggio alla medicina di famiglia che Di Paolo si appresta a fare non è una passeggiata e comporta più di una rinuncia. “Ho partecipato al concorso annuale. Ora dovrò fare un corso di tre anni. E nonostante abbia già lavorato 10 anni in un reparto di medicina Interna, dovrò comunque fare il tirocinio in reparto e, addirittura, rifrequentare un Pronto soccorso. In questo senso questa è una formazione da ripensare, visto che più della metà del mio percorso formativo dovrò spenderlo in cose che già conosco più che bene. Tra l’altro il mio curriculum include l’esperienza all’estero per un’alta specializzazione sulla fibrosi cistica e un periodo in cui ho lavorato per avviare una carriera universitaria”.  

E sul piano economico “almeno per tre anni guadagnerò tre volte di meno rispetto ad oggi. E’ un passo difficile. E, secondo me, è il freno che limita molti colleghi, sfibrati da anni di lavoro nell’emergenza, a fare un passo come il mio. Io posso ancora farlo perché non ho famiglia, sono un po’ più libero e ho un’età che me lo permette. E a lungo termine tornerò ad avere una retribuzione simile a quella attuale. La mia è una scelta assolutamente convinta”, conclude, sottolineando che “non è stato facile. E’ amaro doversene andare ma è la cosa giusta per me, non l’ho fatto a cuor leggero ma è l’unico modo per poter avere una vita privata”. 

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