Matteo Messina Denaro è morto. Il boss della mafia aveva 62 anni ed era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore a L’Aquila per un tumore al colon giunto al quarto stadio. Messina Denaro era da tre giorni in coma irreversibile per le conseguenze del tumore. Assistito fino all’ultimo dagli specialisti della terapia del dolore che lo hanno preso in carico dopo la sospensione di qualsiasi terapia oncologica. E’ stato lo stesso boss, arrestato lo scorso 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza, a chiedere di evitare l’accanimento terapeutico. Ecco perché è stata sospesa nella notte l’alimentazione parenterale per endovena.
Ieri Messina Denaro ha avuto, come si apprende, un forte sanguinamento a cui è seguito un collasso. Ad agosto era stato operato d’urgenza per una occlusione intestinale diventata cronica. Il boss è stato ricoverato in ospedale lo scorso 8 agosto. L’Asl dell’Aquila è già da giorni al lavoro per gestire le fasi successive alla morte di Messina Denaro e la riconsegna della salma alla famiglia, che è rappresentata dalla nipote, l’avvocata Lorenza Guttadauro, che si trova all’Aquila da diversi giorni. Presente anche la figlia del boss, Lorenza Alagna, che nei mesi scorsi ha chiesto e ottenuto il riconoscimento del cognome del padre. La struttura sanitaria è presidiata da decine di poliziotti, Carabinieri e uomini della Guardia di finanza, con il sostegno dell’Esercito.
L’interrogatorio del boss dopo la cattura
«Non sono un mafioso» e «non mi pentirò mai». Era il 13 febbraio scorso e Matteo Messina Denaro si trovava, per la prima volta, davanti ai magistrati di Palermo che lo interrogavano. In poco meno di due ora il boss mafioso aveva parlato di mafia, di famiglia, persino del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ad ascoltarlo il Procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido. «Io non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia», diceva Messina Denaro in quel primo interrogatorio reso ai magistrati di Palermo il 13 febbraio. Sette mesi prima di morire. «Ora che ho la malattia non posso stare più fuori e debbo ritornare qua. Allora mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta», spiegava. E diceva che a Campobello di Mazara, dove viveva, sotto falso nome «mi sono creato un’altra identità: Francesco». «Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare».
In quell’interrogatorio Matteo Messina Denaro diceva di non sapere cose fosse Cosa nostra e spiegava: «Io mi sento uomo d’onore, ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali… magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra». E affermava di non avere commesso i reati di cui lo accusano: «Stragi e omicidi… non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare».
In quella circostanza allontanò da se anche l’ipotesi di avere svolto un ruolo nell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino Di Matteo, rapito a 12 anni e poi ucciso e sciolto nell’acido a 14 anni. «Una cosa fatemela dire: forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo, ma con l’omicidio del bambino non c’entro». Per il boss decise tutto Giovanni Brusca, «e io mi sento appioppare un omicidio, invece secondo me mi devono appioppare il sequestro di persona. Non lo faccio per una questione di 30 anni o ergastolo, per una questione di principio. E poi a tutti… cioè loro lo hanno ammazzato, lo hanno sciolto nell’acido e alla fine quello a pagare sono io? Ma ingiustizie quante ne devo subire?».
Quel giorno, il boss Messina Denaro parlò anche dell’audio inviato a una paziente della clinica di Palermo dove era anche lui in cura per il tumore, in cui, rimasto bloccato nel traffico il 23 maggio, insultava Giovanni Falcone: «Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa…», diceva. «Il punto qual è? Che io – aggiungeva – ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perche’ non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: così vi fate odiare».
Quel giorno, il Procuratore De Lucia gli chiedeva perché scriveva a Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro rispondeva: «Perché quando si fa un certo tipo di vita poi arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare perché io latitante accusato di mafia lui latitante accusato di mafia dove si va». «Ma lei – insisteva il capo della Dda siciliana – se lo ricorda quello che scriveva a Bernardo Provenzano?». «Sì, pressappoco sì, io chiedevo favori a lui se me li poteva fare e lui chiedeva favori a me se glieli potevo fare. Omicidi non ce n’erano, questo è sicuro».
Quel giorno l’ex primula rossa aveva spiegato ai pm che per tanti anni aveva deciso di vivere lontano dalla tecnologia perché consapevole che sarebbe stato un punto debole.
In quella circostanza parlava anche del padre, il boss mafioso Francesco Messina Denaro, che aveva definito “un mercante d’arte”. «Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte. Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – raccontava il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte (sito archeologico del trapanese ndr). Mio padre non è che ci andava a scavare però a Selinunte a quell’epoca c’erano mille persone e scavavano tutte. In genere il 100% delle opere le comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque: in Arabia, negli Emirati e noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani».