Ha ragione Enrico Letta: la giustizia non si cambia a colpi di referendum. Peccato che nell’ultimo decennio, in cui il Pd è stato quasi sempre al governo, di cambiare la giustizia non c’è stata proprio aria. Peccato che quando ha iniziato a farlo il governo Draghi, Letta ha giocato di sponda con i Cinquestelle. Per frenare. E anche stavolta frena sulla riforma della custodia cautelare. Si fa in Parlamento, dice. Non con il voto popolare. Peccato che in Parlamento non accada più niente di rilevante dalla notte dei tempi. E che nell’ultimo decennio i cittadini in carcere in attesa di giudizio siano stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, rispetto a una media europea del 22 per cento. Se pure l’anno scorso, complice la pandemia, la percentuale è scesa al 31, ci sono 12 mila 583 persone, tante quanti gli abitanti di Isernia, che nell’ultimo triennio sono state assolte o prosciolte dopo essere finite in carcere da innocenti. Non a caso lo Stato paga 37 milioni di euro all’anno per ingiusta detenzione, otto dei quali nel distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria. Nello stesso periodo si contano appena 64 procedimenti disciplinari a carico dei magistrati per abuso della custodia cautelare, e solo quattro censure. Abrogare vuol dire stravolgere, dice il segretario del PD, mentre piccona il quesito referendario. Che si propone di circoscrivere uno dei tre presupposti richiesti dalla legge per mandare in carcere un cittadino: il rischio che ripeta il reato per cui è indagato. La preoccupazione di cui Letta si fa interprete è la seguente: se cade il criterio della reiterazione, chi fermerà i rapinatori e i partner violenti, gli stessi che, rimasti in libertà, torneranno a rapinare e a picchiare, e magari a uccidere? Nobile timore.
Se non fosse che il referendum non cancella quella parte della legge che prescrive l’adozione della custodia cautelare, quando sussiste il «concreto e attuale pericolo che l’indagato commetta gravi delitti con uso di armi o altri mezzi di violenza personale, o diretti contro l’ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata». Lo sa, Letta, che rapinatori e picchiatori non beneficiano del referendum?
L’incolumità dei cittadini e la sicurezza dello Stato non sono in pericolo. E allora perché in tutti gli altri casi il voto popolare si propone di cancellare il criterio del rischio di recidiva? La risposta sta nel fatto che cozza con un principio costituzionale fondamentale: il principio di non colpevolezza o, se preferite, e noi preferiamo, di innocenza. Innocente deve considerarsi ogni cittadino fino a prova contraria, validata da una sentenza passata in giudicato. Si tratta di uno dei cardini della nostra civiltà giuridica. Sta nella Costituzione e il Parlamento di recente l’ha riconfermato, approvando una direttiva europea che impone la presunzione di innocenza in tutte le fasi del processo.
Con i limiti di un referendum abrogativo, qui si prova a eliminare una grave contraddizione della giustizia cautelare: per pronosticare il rischio che io possa ripetere il reato, devi presupporre che io sia colpevole, mentre dovresti considerarmi innocente. In tal modo attribuisci al sospetto, non comprovato da nessun grado di giudizio, il valore di anticamera della verità. È questo il segnale che il referendum manda al legislatore: il pericolo della recidiva come presupposto del carcere è qualcosa che ripugna al pensiero giuridico liberale, e risponde invece al pensiero di polizia. Perché è ben diverso dagli altri due criteri indicati dalla legge: il rischio di inquinamento e il rischio di fuga. Tu puoi arrestarmi perché, in modo fraudolento, sto tentando di impedirti di acquisire le prove, o perché sto tentando di sottrarmi al contraddittorio del processo. Ma non puoi arrestarmi perché posso ripetere il reato, perché in tal caso vuol dire che implicitamente mi hai già condannato. A questo punto il rischio di recidiva diventa anche la negazione del processo accusatorio, quello per il quale la prova si forma nel dibattimento.
Le misure cautelari sono da sempre nemiche della presunzione di innocenza. Tant’è vero che tutte le volte che il legislatore ha cercato di renderle automatiche per alcuni reati, la Corte Costituzionale l’ha smentito. Solo per i sospettati di mafia e terrorismo, ha spiegato quest’ultima, è possibile dire che il carcere sia sempre adeguato. In una storica sentenza del 2010, di cui fu relatore il grande giurista Giuseppe Frigo, la Consulta spiegò forte e chiaro alla politica che la presunzione di innocenza impedisce che la custodia cautelare si confonda con la pena, rappresentandone un’anticipazione. La restrizione della libertà personale, ha sancito la Corte, deve essere inchiodata al principio del «minimo sacrificio necessario».
È accaduto sempre il contrario. Il carcere senza giudizio è stato somministrato secondo il malcelato criterio della massima afflizione possibile. Eppure le riforme non sono mancate. Quella del 2015 prescriveva che i pericoli di reiterazione del reato, di fuga e di inquinamento delle prove fossero «concreti e attuali». Per sostenere che io stia per sottrarmi al giudizio, bisognerebbe provare che sto cercando un passaporto falso, o che ho acquistato un biglietto aereo. E invece accade che la prognosi della mia fuga venga desunta dal fatto che sono indagato per un reato punito con pene lunghe, e quindi di per sé sufficiente a giustificare il sospetto che me la dia a gambe levate. Per ipotizzare che potrei ripetermi, bisognerebbe individuare azioni inequivocabilmente preparatorie. E invece talvolta la propensione a delinquere viene desunta dalla gravità stessa del reato commesso o da alcune mie qualità specifiche, per esempio che io sia un politico influente. Così la concretezza prescritta dalla legge viene calpestata. Stessa sorte accade all’attualità. Dal momento in cui il pm chiede la custodia cautelare al momento in cui il gip l’accorda o la nega possono passare anche due anni. Ma il pericolo che era effettivo allora, e che adesso potrebbe non sussistere più, viene cristallizzato e falsamente assunto come attuale. Perché, in assenza di sanzioni per chi sbaglia, le riforme scivolano come l’olio sul corpo della magistratura. Che anche a costo di perdere credito e contatto con la società, fa fatica a rispondere a un cambio di passo ormai indifferibile.
È la difesa del potere la ragione di ogni resistenza al cambiamento. La custodia cautelare serve per fare macelleria sociale, gettando in carcere migliaia di disperati (un terzo dei detenuti è composto da stranieri), e per combattere i potenti. E qui la carcerazione preventiva ha la funzione di una condanna anticipata, pronunciata in base a un paradigma moralistico: siccome i corrotti la fanno franca, gliela facciamo pagare subito. Di più, il carcere immediato riporta l’indagine al centro dell’accertamento penale, a danno del processo che, se mai si farà, avrà esaurito in partenza la sua funzione. La filosofia dell’investigazione ragiona più o meno a questo modo: abbiamo gli elementi per sbatterti in galera, che tu sia colpevole o innocente a noi non interessa. Così la custodia cautelare piace alla stessa maniera ai Cinquestelle e a Fratelli d’Italia.
Il referendum da solo non fa una riforma compiuta. Ma serve a dimostrare che il vento è cambiato, e che l’alleanza giustizialista non ha più la maggioranza del Paese. Affondando il voto popolare, Letta vuol rassicurare che non accadrà. Perché, un quarto di secolo dopo Mani Pulite, che la custodia cautelare la usava per indurre la confessione, c’è il Pd a celebrare le nozze d’argento tra i forcaioli di sinistra e i securitari di destra.
Bentornato,
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