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L’acciaio del futuro? «Sarà più performante». Parla Stefano Ferrari di Siderweb

«Il ruolo della siderurgia nazionale in ambito europeo è un chiaro-scuro: da un lato siamo importatori netti dall’altro esportatori», Stefano Ferrari, responsabile dell’Ufficio Studi Siderweb. Direttore, in che direzione sta andando la produzione dell’acciaio? «In generale c’è una tendenza in corso da qualche anno, che potrebbe prender decisamente piede: riguarda l’aumento delle prestazioni del prodotto».…

«Il ruolo della siderurgia nazionale in ambito europeo è un chiaro-scuro: da un lato siamo importatori netti dall’altro esportatori», Stefano Ferrari, responsabile dell’Ufficio Studi Siderweb.

Direttore, in che direzione sta andando la produzione dell’acciaio?

«In generale c’è una tendenza in corso da qualche anno, che potrebbe prender decisamente piede: riguarda l’aumento delle prestazioni del prodotto».

Cosa significa?

«A parità di peso l’acciaio del futuro dovrà essere molto più performante, avere resistenza e lavorabilità maggiore perché in molte applicazioni è richiesto un calo del peso, ad esempio per diminuire i consumi delle macchine è necessario farle pesare meno. Nel corso degli ultimi decenni gli acciai usati sono diventati molto più sottili garantendo le stesse prestazioni. Questo è un trend decisivo per il settore».

Che ruolo ha l’Italia nel contesto europeo?

«È un paese spaccato a metà. Le due grandi famiglie di realizzazioni siderurgiche sono i prodotti lunghi e quelli piani. Gli ultimi sono i coils, prodotti fondamentalmente a Taranto. I lunghi invece sono principalmente utilizzati in edilizia e realizzati nel Nord Italia, dove la produzione è tale da poterci permettere l’esportazione. La produzione dell’ex Ilva purtroppo non è sufficiente a soddisfare il fabbisogno nazionale quindi dobbiamo importare altri prodotti lunghi. Ne produciamo meno di quello che ci servirebbe».

Quanto serve l’impianto di Taranto?

«Nel caso in cui la produzione andasse a zero saremmo carenti di circa 3 milioni di tonnellate di prodotto, che è la produzione attuale».

Sarebbe strategicamente corretto eliminare gli altiforni nel processo produttivo?

«Oltre ad essere il metodo standard di produzione è quello utilizzato oggi al Sud. Possiamo sostituirlo con la laminazione che è un metodo a freddo, ma in questo caso andrebbe acquistato un semilavorato. Faremmo a meno della prima fase produttiva, che è sicuramente quella che ha un maggior impatto sull’ambiente e che necessita anche di una grande quantità di manodopera, perché è proprio questa prima parte che richiede maggiore lavorazione. È importante anche precisare che avere tutta la filiera in un unico sito lo rende completo dal punto di vista industriale e soprattutto indipendente. Se dovesse venire meno il produttore del semilavorato non avremmo più materia da lavorare. Questa sarebbe una grande debolezza».

Come si può colmare l’attuale gap tra produzione e fabbisogno?

«L’Italia era importatrice netta anche quando a Taranto si produceva a pieno regime. Probabilmente anche aumentandone la produzione avremmo comunque bisogno di comprarlo dall’estero».

Da chi importiamo maggiormente?

«Per quanto riguarda i coils, nel 2022, abbiamo importato quasi 10 milioni di materia prima. Di questi il 45 per cento dall’Unione Europea e il resto da diversi paesi fuori l’Unione. Guardano i singoli paesi chi esporta maggiormente in Italia è la Francia, a seguire India, Germania, Turchia, Corea del Nord, del Sud, Giappone e Olanda».

Quindi neanche l’Europa riesce a gestire il fabbisogno interno?

«Teoricamente potrebbe, una parte degli acquisti viene fatta fuori dal continente per morivi strategici di mercato. Delle volte vengono trovati prezzi più bassi fuori l’area Ue».

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