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La storia Ana, sfuggita alle bombe in Ucraina ma non al caporalato: lo sfruttamento nei campi della Basilicata

Pur di non rischiare la vita sotto le bombe, ha accettato di raccogliere frutta e verdura per dieci ore al giorno nelle serre e nei campi di Basilicata e Calabria. Senza guanti, senza un regolare stipendio e soprattutto senza diritti. Così Ana, 40enne rifugiata ucraina, è passata dal dramma della guerra nel Donbass a quello…

Pur di non rischiare la vita sotto le bombe, ha accettato di raccogliere frutta e verdura per dieci ore al giorno nelle serre e nei campi di Basilicata e Calabria. Senza guanti, senza un regolare stipendio e soprattutto senza diritti. Così Ana, 40enne rifugiata ucraina, è passata dal dramma della guerra nel Donbass a quello del caporalato, prima di denunciare lo sfruttamento di cui era vittima.

La sua storia è quella di migliaia di donne, più o meno giovani, che viaggiano verso l’Italia nella speranza di sfuggire a guerre, fame e povertà. E così, nell’aprile del 2022, la 40enne ucraina – divorziata, madre di un figlio di 15 anni e in precarie condizioni di salute che la costringono a forti spese per i medicinali – ha deciso di raggiungere i familiari che già vivevano in Calabria e lavoravano come braccianti agricoli. Dopo un viaggio durato una settimana, Ana è arrivata a Trebisacce e ha immediatamente avviato le pratiche per la protezione temporanea. Non poteva immaginare che, in quello stesso momento, per lei sarebbe cominciato l’incubo dello sfruttamento.

Nel giro di pochi giorni, infatti, la donna si è ritrovata a raccogliere fave, mandarini, fragole e pesche nelle serre e nei campi di Basilicata e Calabria. «Mio fratello e sua moglie sono braccianti e io ho deciso di andare a cercare lavoro con loro – racconta Ana – Ci siamo unite io e altre donne ucraine arrivate con me, qui siamo tantissime. Siamo andate a raccogliere le fave. Eravamo tutte in nero». Drammatiche le condizioni di lavoro descritte da Ana agli attivisti di ActionAid nella Cittadella della condivisione a Schiavonea, in Calabria: «Le fave fanno diventare le mani tutte rosse, bruciano, ma nessuno ci dava i guanti, dovevamo mantenere le mani sensibili e non ammaccare le fave. Non conoscevamo l’italiano, eravamo costrette a stare zitte, piegate, dalle 7 di mattina alle 5 di pomeriggio. Non ci aspettavamo un trattamento così crudele e disumano».

Dopo la raccolta delle fave, Ana si è dedicata a quella dei mandarini in autunno, con la pioggia e il freddo. Nel 2023 è andata in Basilicata, a Policoro, per raccogliere albicocche e pesche, partendo dalla Piana di Sibari. Poi, dopo gennaio, è stata impegnata nella raccolta delle fragole insieme con tante altre donne che lavorano nelle serre. A quel punto, le condizioni di vita e di lavoro di Ana sono addirittura peggiorate: «Per spostarci verso la Basilicata e fare avanti e indietro ogni giorno ci siamo affidati a un ragazzo romeno che ci portava con un furgoncino. Siamo finite sotto il caporalato. Gli davamo otto euro a testa, li prendeva dalla nostra paga. Lui ci insultava e ci tirava le cassette della frutta addosso. Non solo a noi: nei campi non c’è differenza tra italiani e stranieri, solo che noi non denunciamo mai nulla, nel timore di perdere la protezione ed essere cacciati. Alla fine, siamo andati via. Il datore di lavoro non sapeva niente di cosa avveniva nei campi, ci ha pagato tutto e ci ha chiesto di tornare l’anno prossimo senza nessun intermediario».

La storia di Ana è stata raccolta dai volontari di ActionAid che operano nella Cittadella della condivisione a Schiavonea, in Calabria: «Si sta verificando una sostituzione nella catena dello sfruttamento -spiega Grazia Moschetti, responsabile di ActionAid nell’arco ionico – Le donne romene sono andate via, ma la frutta va comunque raccolta e a farlo è chi ha più necessità: oggi sono le rifugiate ucraine le più sfruttate».

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