(Adnkronos) – “Quel suo tratto combattivo, vigoroso, appassionato, identitario come si usa dire, quel suo carattere militante, quel modo felicemente assertivo di esercitare leadership, tutto questo e altro ancora fin qui ha portato una certa fortuna a Giorgia Meloni. Ora non più, però. E sarebbe il caso a questo punto che lei scendesse al più presto dal ring evitando di far del male a se stessa e -soprattutto- al suo e nostro paese.
Si dirà che la politica non è mai un esercizio di irenismo, e che gli interessi nazionali si difendono anche con un certo vigore e perfino accettando di correre qualche rischio. Ma è altrettanto e ancor più evidente che incrociare i ferri con la Francia e, per tramite di Parigi, con quasi tutta l’Europa, o almeno l’Europa che conta, di questi tempi è un atto di pura dissennatezza politica. Atto al quale il governo Macron ha corrisposto a sua volta con una speculare e deprecabile virulenza verbale ma forse anche con una maggior forza negoziale. Il che, se vogliamo, costituisce per noi un’aggravante.
Il fatto è che un leader dovrebbe cambiare postura non appena finisce la fatica della campagna elettorale e comincia l’ancor più faticoso esercizio del governo. Poiché in un caso si parla ai tifosi e si confida di galvanizzarli giocando sulle loro avversioni. Ma nell’altro caso, invece, si deve costruire il consenso, trovare la misura, calibrare le parole, tenere a freno gli istinti. E tanto più quando sono istinti discutibili.
E’ vero che la reazione francese è stata un po’ sproporzionata, come afferma la Farnesina. Ma a provocarla è stato un vero e proprio errore strategico da parte del governo italiano. Laddove si è pensato di esportare sul teatro europeo il dialetto elettorale, confidando in una solidarietà intergovernativa che su temi di così vasta risonanza non potevano esserci senza averli saputi negoziare prima con prudenza e con sagacia. Errore etico, ed errore strategico, insomma. E giudichi l’opinione pubblica quale sia il più grave.
Ma la questione, se vogliamo, è perfino più grande di così. E riguarda l’intera strategia politica del governo di Giorgia Meloni. Infatti lei si è fatta forte fin qui di quella sua personalità politica così assertiva e controcorrente. La narrazione di una figura periferica che ha saputo rimontare gli svantaggi di una certa marginalità iniziale salendo uno ad uno tutti i gradini del consenso popolare, fino a vincere le elezioni dopo essere stata la sola opposizione (opposizione ufficiale, per lo meno) al governo Draghi e perfino alla rielezione di Mattarella, la narrazione cioè del trionfo di una vera, autentica outsider, tutto questo ha concorso largamente alle sue fortune e anche a una popolarità non comune.
All’indomani del voto, però, era tanto più necessario vestire altri panni. Cosa che il (la) presidente del consiglio per la verità ha cercato di fare nelle prime ore, evitando festeggiamenti di cattivo gusto e accogliendo il testimone di governo, la famosa campanella, con un fair play pieno di reciproco e quasi affettuoso riguardo. Perfino i contrasti dei primi giorni con Berlusconi che straparlava di e su Putin sono stati gestiti con fermezza quasi istituzionale, suscitando un certo rispetto anche da parte di chi non la pensa alla sua maniera.
Poi, però, quel certo tratto identitario ha ripreso il sopravvento. E così è arrivato il pasticcio del decreto sul rave party, già da riscrivere; il pasticcio più grande sugli sbarchi dei migranti nel porto di Catania; e infine il pasticcio grandissimo della contesa con l’Europa per interposta Francia. Tutte cose sbagliate in linea di principio. E ancora più sbagliate se ci si pone dalla parte degli interessi -perfino quelli di più corto respiro- del nostro paese.
Dunque, se non la virtù, che sia almeno l’interesse a spingere il governo verso consigli più miti. Cominciando a considerare che un’intelligente mitezza è quasi sempre la risorsa migliore che la forza politica può trovare in se stessa”.
(di Marco Follini)