C’è un interrogativo, nel dibattito sul salario minimo, al quale troppi sembrano non voler rispondere: su chi saranno scaricati i costi della norma, qualora dovesse essere approvata, che punta a introdurre uno stipendio orario base di nove euro lordi? La questione non è trascurabile se si pensa che, nel primo trimestre del 2023, la pressione fiscale si è attestata al 37%, sebbene in calo di quasi un punto rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, e che, a causa dell’inflazione, i consumi di beni e servizi da parte delle famiglie non hanno ancora raggiunto i livelli pre-Covid, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno.
In altri termini, è giusto aprire un dibattito sul lavoro povero, che oggi riguarda circa tre milioni e mezzo di italiani, ma è altrettanto doveroso interrogarsi preventivamente sull’impatto di certe misure. Il ddl condiviso dalle opposizioni parlamentari, a eccezione di Italia Viva, prevede l’istituzione di un fondo pubblico da finanziare attraverso la legge di bilancio.
Il rischio che il salario minimo sia “foraggiato” con l’introduzione di nuove tasse o con l’aumento di quelle in vigore, dunque, appare più concreto che mai. Tanto è vero che qualche esponente renziano ha parlato del salario minimo proposto dalle opposizioni parlamentari come di “una tassa mascherata”, come tale destinata ad accrescere la pressione fiscale soprattutto sul ceto medio. Ciò non appare equo né opportuno, visto che coloro che guadagnano 2mila euro o poco più al mese pagano più del 40% dell’Irpef, pur rappresentando soltanto il 5% del totale dei contribuenti. Allo stesso modo, non si può permettere che il salario minimo si traduca semplicemente in un aumento del costo del lavoro a carico delle imprese che finirebbero per scaricare questo aggravio sui consumatori attraverso l’aumento del prezzo di beni e servizi: una prospettiva drammatica in un momento storico in cui le famiglie, soprattutto al Sud, devono fare i conti con l’impennata delle tariffe energetiche e del listino dei generi alimentari.
La terza ipotesi è che il provvedimento si traduca in maggiori costi a carico dello Stato. Su questa ipotesi si è pronunciato, a suo tempo, l’Istat, secondo il quale l’impatto del salario minimo orario si tradurrebbe in una maggiorazione dei costi di beni e servizi pari a 472 milioni di euro, oltre che di quelli dei beni intermedi pari a 226 milioni: un aggravio che ammonterebbe a circa 700 milioni, destinati comunque a essere ridimensionati perché il monte salario sarà in parte assoggettato a Irpef e Irap.Ecco perché la riduzione del cuneo fiscale sembra la strada maestra per contrastare il lavoro povero e, nello stesso tempo, evitare di soffocare ceto medio con nuovi o ulteriori balzelli e le imprese con nuovi o ulteriori costi di produzione. Ed è un bene che la premier Giorgia Meloni abbia voluto coinvolgere nel dibattito il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) il cui presidente, l’ex ministro Renato Brunetta, ha recentemente presentato alla Commissione Lavoro della Camera una memoria con alcune proposte sul salario minimo: coinvolgere le parti sociali, affrontare il nodo della bassa produttività oltre che quello dell’aumento del costo della vita e dell’ancora elevato cuneo fiscale, contrastare i contratti pirata, favorire il pieno sviluppo di tutti i livelli della contrattazione, aiutare chi percepisce paghe particolarmente basse azionando la leva fiscale. In questo modo non si recupererà il tempo perso negli ultimi trent’anni, quando il confronto sul salario dei lavoratori è stato completamente accantonato, ma si porranno almeno le basi per un confronto serio ed efficace, basato su dati reali e lontano da inutili steccati ideologici.
Raffaele Tovino – dg Anap
Bentornato,
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