Si fonda su quattro punti la decisione della Corte di Cassazione di respingere il ricorso della Procura di Bari sulle misure di custodia cautelare a carico del ginecologo barese, Giovanni Miniello – assistito dagli avvocati Roberto Eustachio Sisto (Studio FPS) e Maria Cristina Amoruso – finito ai domiciliari il 30 novembre 2021 con le accuse di violenza sessuale aggravata nei confronti di alcune pazienti.
In primo luogo, i giudici romani affrontano il quadro indiziario nella prospettiva della “violenza sessuale per costrizione”. A questo proposito, facendo riferimento alla terapia consigliata dal ginecologo per guarire dal papilloma virus, e cioè avere rapporti sessuali con lui, scrivono: «a differenza di quanto sostenuto dal pubblico ministero ricorrente, l’ordinanza impugnata (ndr, quella di febbraio scorso del tribunale della libertà) ha escluso l’idoneità coercitiva» della condotta di Miniello, «non solo e non tanto perché quella terapia alternativa non fu proposta come esclusiva e fu comunque prescritta anche una terapia farmacologica, ma soprattutto perché alla presenza della paziente (in un momento in cui era spaventata), l’indagato non disse che era in grado di guarirla col proprio sperma e si limitò a indicare in termini generici che esisteva un metodo alternativo alla terapia farmacologica, che richiedeva non meglio specificati “contatti” con una persona vaccinata».
Una indicazione che, secondo il tribunale ma anche la Cassazione, non era tale da far venir meno la sua capacità di autodeterminazione. La proposta esplicita, sarebbe arrivata dopo, quando lei era già stata informata dell’esito negativo degli esami e in nulla condizionata, «come dimostra il fatto che la donna telefonò al ginecologo per chiedergli come mai, a fronte di referti negativi, una terapia farmacologica era necessaria». Per la Suprema Corte, «la motivazione è congrua».
Gli Ermellini rispondono poi agli altri motivi di ricorso, e cioè la carenza di motivazione sul mancato riconoscimento del quadro indiziario in relazione alla tentata violenza sessuale e alla tardività di alcune denunce. «Il tribunale distrettuale – scrivono – si è attenuto ai principi indicati anche con riferimento all’individuazione della decorrenza dei termini per proporre la querela». Si tratta di due donne che avevano presentato querela anni dopo la presunta violenza, dopo aver visto il servizio de Le Iene e aver capito di essersi trovata nella stessa situazione. Per i giudici, in ogni caso, la denuncia è tardiva.
Di conseguenza, venuti meno questi due punti su cui si fondava parte dell’accusa, anche la parte del ricorso riguardante la scelta degli arresti domiciliari va respinta, visto anche che nel frattempo gli stessi domiciliari sono stati revocati.