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Boris Pahor, ‘Necropoli’: capolavoro negli abissi dei lager

(Adnkronos) - Boris Pahor, morto oggi a 108 anni, con 'Necropoli' riesce "a fondere l'assoluto dell'orrore con la complessità della storia". Così lo scrittore e saggista triestino Claudio Magris ha definito il romanzo autobiografico, pubblicato da Fazi nel 2008 nella sua versione definitiva, insignito del Premio Internazionale Viareggio Versilia, il Premio della giuria al Premio…

(Adnkronos) – Boris Pahor, morto oggi a 108 anni, con ‘Necropoli’ riesce “a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia”. Così lo scrittore e saggista triestino Claudio Magris ha definito il romanzo autobiografico, pubblicato da Fazi nel 2008 nella sua versione definitiva, insignito del Premio Internazionale Viareggio Versilia, il Premio della giuria al Premio Napoli, il Premio Latisana per il Nord-Est 2008, il Premio Resistenza, il Premio Napoli ‘Libro dell’anno.  

Scritto con un linguaggio crudo che non cede all’autocommiserazione, ‘Necropoli’ è un libro autobiografico intenso e sconvolgente. E se Pahor racconta la sua esperienza nel mondo della Shoah perché la memoria non si perda e la storia non sia passata invano, quella che offre non è però solo la fedele testimonianza delle atrocità dei lager nazisti, è anche un emozionante documento sulla capacità di resistere e sulla generosità dell’individuo. 

Campo di concentramento di Natzweiler-Struthof sui Vosgi. L’uomo che vi arriva, un pomeriggio d’estate insieme a un gruppo di turisti, non è un visitatore qualsiasi: è un ex deportato che a distanza di anni torna nei luoghi dove era stato internato. Subito, di fronte alle baracche e al filo spinato trasformati in museo, il flusso della memoria comincia a scorrere e i ricordi riaffiorano con il loro carico di dolore e di commozione. Ritornano la sofferenza per la fame e il freddo, l’umiliazione per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, i più, non ce l’hanno fatta. E come fotogrammi di una pellicola, impressa nel corpo e nell’anima, si snodano le infinite vicende che ci parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare, unite però alla solidarietà tra prigionieri, a un’umanità mai del tutto sconfitta, a un desiderio di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai perso completamente. 

“Un libro sconvolgente, la visita a un campo della morte e il riaffiorare di immagini intollerabili descritte con una precisione allucinata e una eccezionale finezza di analisi”, ha scritto “Le Monde”.  

“Un memoir indimenticabile ed evocativo. Con la sua voce intensa e originale Pahor penetra nel cuore dei lettori e li conduce nel luogo dove perse la maggior parte dei suoi compagni e molto di sé”, secondo la “Kirkus Review”.  

“Non c’è modo di evitare lo sguardo coraggioso e diretto di Boris Pahor. Il suo nome è stato giustamente accostato a quello di Primo Levi, Imre Kértesz e Robert Antelme”, ha scritto in Germania la 2Süddeutsche Zeitung”. 

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